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MICHELE MARI, “La stiva e l’abisso”, Einaudi

“.. finchè navigo voglio solo navigare, essere una cosa sola con il fasciame e l’alberatura velata, vibrare come una gomena tesa, impregnarmi di mare come le vele di fiocco, quando le onde son prese di punta e la schiuma sormonta il bompresso, sì, voglio essere pura voce imperiosa, ‘Molla tutto!’, ‘Inverti la barra!’, puro flatus nell’orror tenebroso della tempesta, fatto della stessa sostanza degli schiocchi dei paranchi e del rimbombante muggito del mare…”

Tutti, credo, abbiamo iniziato a leggere per soddisfare un bisogno di avventura, che andasse oltre a quella che i giorni ci riservavano o che da soli avremmo potuto immaginare, desiderare o temere. Ce ne siamo nutriti e appassionati fino a che l’avventura è diventata una metafora della vita e abbiamo continuato a cercarla nei libri, a svelare i suoi camuffamenti, ad individuare le sue diverse facce, scoprendo che poteva travalicare le trame, liberarsi dai loro lacci, annidarsi nelle parole, nelle loro forme e strutture, diventando così inesauribile e inimmaginabile. Gli scrittori veri sono legati a doppio filo con l’avventura della parola, di tutte le sue forme e sfumature, del loro modo di ricreare ogni volta il mondo, sono degli avventurieri e leggerli significa seguirli, inoltrarsi con loro verso l’ignoto, spesso senza punti di riferimento. Si può fingere che sia solo un gioco, ma nessun trastullo o passatempo ha a che fare con il nostro bisogno di conoscenza o, come dice Stig Dagerman, nel titolo del suo bellissimo libro, di consolazione.

In questo senso Michele Mari è il principe degli avventurieri, non solo perchè ha riempito la sua letteratura di quello che fin dalle sue origini di lettore lo aveva entusiasmato e tenuto avvinto alle pagine, ma anche e soprattutto perchè ha trasfigurato tutto ciò contaminandolo con quel mondo delle lettere di cui è un inesausto esploratore, l’ha contaminato con tutti gli espedienti che la retorica gli mette a disposizione, ha forzato la lingua obbligandola ad utilizzare parole ed espressioni desuete ma piene di fascino e di molteplicità di significati. Ha riempito le sue pagine di labirinti in cui ci si inoltra pieni di incertezza e di stupore, di dubbi interpretativi, di reminiscenze e di consonanze, afferrando frammenti affascinanti e perdendo, quando si crede di averlo compreso, il senso dell’insieme, per poi ritrovarlo, ipotizzare, costretti a ritornare su pagine già lette e riscoprire così la loro bellezza.

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Michele Mari, Francesco Pernigo “Asterusher – Autobiografia per feticci”

MICHELE MARI, FRANCESCO PERNIGO – Asterusher – Autobiografia per feticci – Corraini Edizioni

Asterusher

“Perché questo noi siamo: la nostra scrittura e le nostre cose; questo il nostro lascito e, ben più esattamente che in una nota biografica, il nostro curriculum”.

Inizio col dire che, per struttura, forma, composizione, scelta di materiali e colori che lo fanno assimilare ad un piccolo catalogo d’arte, il libro soddisfa sia il senso estetico che la curiosità del lettore e appare, semplicemente al tocco o anche al primo frettoloso sguardo, particolarmente accattivante. Una simmetria piana e ordinatrice sembra deputata a contenere, senza disperderla e senza soffocarla o immiserirla, una materia iconografica e linguistica sovrabbondante che respira e agisce ben oltre il primo sguardo o la prima lettura. Si tratta di case, o meglio, di interni di case, delle due in cui la vita di Mari è trascorsa e trascorre, di case e di oggetti in essa contenuti – “Le case sono mie: mia la vita trascorsavi; miei gli oggetti e il senso che li investe” – quella di Nasca, la casa avita, di campagna, e quella di Milano. Ad esse sono dedicate le due sezioni del volume, i due repertori fotografici, identici nel numero di pagine, ventitré per ogni casa, e nella impaginazione (le fotografie – bellissime, di Francesco Pernigo – occupano gran parte della pagina e sono introdotte da didascalie che, per la loro natura, non tanto e non solo esplicativa, costituiscono la parte letteraria del volume).

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Michele Mari, “Rondini sul filo”

MICHELE MARI – Rondini sul filo – Mondadori

Rondini sul filo – Michele Mari

“[…] suadente come seguisse una musica che sente lei sola, esperienza inquietante ascoltarla, quasi le sue parole avessero dita che ti frugano il cuore… prima un solletichino bello, grazioso… poi certe lame! che non hai scampo! che diventi un Francis Bacon! che ha ragione lei! sempre! la gran filosofessa! mica poco triste sta donna, malinconica molto, sempre in comunione con le altitudini… gliela dettano le altitudini la sua malinconia iridescente, le angelelle dorate gli zefiri rosa… bella quando è così dolente, ispirata… la nobilissima virgo vestale! che allora puoi fare il confronto fra l’epidermide che ti è data in sorte e tutti i Misteri che si tiene per sé, allora soltanto! allora ch’è un’Altra! che ti senti un lombrico da tanto volteggia leggera, si libra… creatura affatata, esistita da sempre… vede tutto sa tutto… antica, anteriore… futura… poter salire con lei, un pochino, alleggerire la mia vita dannata…”

“Rondini sul filo” è un monologo delirante, lungo 346 pagine, senza soste o remissione, fluviale e dirompente, che non ammette ostacoli, che non tollera indugi e che richiede al lettore di condividere la sua stessa energia con la disposizione a lasciarsi travolgere. Non esiste altra possibilità: o si corre col cuore in gola appresso a queste righe, o si chiude il libro e non si procede oltre. Ogni libro possiede il suo ritmo e il suo respiro, ogni linguaggio detta i suoi tempi. In questo romanzo di Mari, la cifra costitutiva è la frenesia di una lingua che definire lussureggiante è ben poca cosa. Perché in effetti è lei che signoreggia la pagina, è lei che avvolge il suo oggetto – sostanzialmente la donna amata dall’io narrante, o meglio dire parlante – ed è sempre lei che si fa carico di quella ossessione che è il tema dominante del romanzo, sostenendola e declinandola all’infinito, in mille e mille modi, con una creatività che dilaga, su se stessa ritorna, trova nuovo slancio e costruisce nuove architetture.

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Michele Mari, “Di bestia in bestia”

MICHELE MARI – Di bestia in bestia – Einaudi

Tutto ciò che viene nutrito è per sua natura destinato a crescere, che si tratti di un organismo vivente, oppure di una passione, o di una ossessione. E queste ultime ancora di più, dovendo rispondere esclusivamente alle proprie leggi interne, e non dovendo sottostare ad alcun limite di spazio e di tempo. Una passione così totalizzante da diventare ossessione, una volta cresciuta e diventata adulta può, in determinate condizioni, dare i suoi frutti. A mio parere è questa l’origine del romanzo che lo stesso Mari definisce “come una vendicativa resa dei conti con una giovinezza interamente dedicata alla letteratura”, oltre che, in modo assertivo, totalizzante, ma anche emozionante, “il libro della mia vita”. Non entro nel merito delle differenze tra questa nuova versione e quella uscita in prima edizione nel 1989, abbondantemente spiegate e motivate dall’autore nella Nota al testo; mi basta sapere che tutte le correzioni sono state “a togliere” e che quindi “l’attuale versione, in ogni sua oltranza di lingua e di stile, era già tutta nella primissima”.

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Mari, “Io venìa pien d’angoscia a rimirarti”

MICHELE MARI – “Io venìa pien d’angoscia a rimirarti” – cavallo di ferro

“Orazio, quando tu guardi la candida Luna, come puoi dire che non sia Ella a guardare te?”

Le pagine di questo libro sono comprese, accompagnate e custodite da un’epigrafe e da una quarta di copertina dense di rimandi significativi, soprattutto per un lettore che, come nel mio caso, le attendeva da molto tempo, pregustando il momento dell’incontro. L’antico proverbio boemo riportato in epigrafe (“Se incontri il lupo, prendilo per fratello, perché egli conosce la foresta”), oltre a generare un senso di familiarità e di riconoscimento per l’inaspettata comparsa della terra boema, dove certo non mi aspettavo di trovarla, con tutta la sua capacità di addomesticare l’orrore decantandolo nella quotidianità, dà anche una immediata direzione alle aspettative, perché predispone mentalmente ad associare il verso leopardiano del titolo alla licantropia, alla metamorfosi, alle leggende legate all’orrore della trasformazione e della perdità dell’identità. Tutto ciò suscita anche una certa curiosità nei confronti dell’esito narrativo di una materia che appare a prima vista inusuale, azzardata e, trattandosi di Leopardi, ad un passo dalla dissacrazione. Ma la quarta di copertina è affollata di numi tutelari, rassicura e predispone favorevolmente. Manganelli definisce questo libro un “capriccio”, associandolo al valore musicale e passionale della parola, presentandolo quindi come una piccola opera riconoscibile, definibile dal suo carattere di compiutezza e di leggerezza, che si distende nello spazio così labile che si apre tra la sperimentazione linguistica e lo scavo esistenziale, tra il gioco erudito e l’introspezione.

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Mari, “Verderame”

MICHELE MARI – “Verderame” – Einaudi

“Un affabulatore maestoso”

Leggendo Mari ho sempre la rassicurante impressione di trovarmi di fronte ad un autore dotato di una sorta di magazzino letterario inesauribile a cui attingere, fatto di ricordi e di impressioni radicati e profondi, di letture, studi, cultura – illuminati, tutti, da vera passione – sicurezza e coraggio nell’utilizzo di uno stile raffinato ma, nello stesso tempo, spontaneo e assolutamente distante dall’artificiosità. A tutto questo si aggiunge, tangibile, il divertimento, quello vero di chi, scrivendo, fa ciò che ama fare. Un’impressione rassicurante per il lettore che, da una parte non è condannato a seguire sperimentazioni sterili dettate dall’ansia della novità e dell’originalità a tutti i costi e, dall’altra, sente di affidarsi a chi sa bene dove portarlo, a chi non deve trovare ogni volta qualcosa di nuovo da dire o da raccontare, perché tutto è già saldamente nelle sue mani, perché si muove in un territorio conosciuto e profondamente amato.

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Mari, “Rosso Floyd”

MICHELE MARI – “Rosso Floyd” – Einaudi

Che cosa cerco nella letteratura.

Che cosa trovo nei libri che amo.

Cerco una guida che mi conduca in territori che io da sola non riuscirei mai a raggiungere e che poi mi riporti a casa, lasciandomi però la sensazione che non ho visto tutto ciò che avrei potuto vedere, che ho assaporato solo una parte della ricchezza in cui mi sono imbattuta.

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Mari, “Filologia dell’anfibio”

MICHELE MARI – “Filologia dell’anfibio. Diario Militare” – Laterza

Ho voluto correre il rischio della lettura di questo libro di Mari. Dal mio punto di vista un rischio, perchè temevo di restare delusa, e noi lettori sappiamo quanto fa male dover ammettere che uno dei nostri scrittori preferiti (tra gli italiani contemporanei, Mari lo è per me) deve essere ridimensionato ai nostri stessi occhi. Sarebbe stata una delusione che forse non gli avrei perdonato. Ho rischiato per la promessa insita in questo titolo canzonatorio e ammiccante (solo, mi pare volutamente, smorzato dall’asettico sottotitolo). Ho ritrovato invece in queste pagine quello che di Mari mi affascina: che si tratti di letteratura, di musica, di vita, ciò che lasciano i suoi libri è una straordinaria sensazione di completezza, o meglio, di aspirazione alla completezza.