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LÁSZLÓ KRASZNAHORKAI, “Seiobo è discesa quaggiù”, Bompiani

Traduzione di Dóra Várnai

“… oggigiorno [..] non c’è più un sopra e un sotto, un alto e un basso, c’è solo un mondo, qui in mezzo, dove viviamo, dove passa la linea numero uno e la quattro e la sette, e dove c’è il Louvre, e dove al Louvre c’è la Venere che guarda un punto imperscrutabile, misterioso, lontano, se ne sta lì, a volte la mettono qui, a volte la spostano di là, e lei se ne sta dove la mettono, e volge orgogliosamente la testa in quella direzione misteriosa, e irradia, irradia la sua bellezza nel nulla, e nessuno capisce, e nessuno percepisce quanto doloroso sia questo spettacolo, una dea che ha perso il suo mondo, una divinità potente, immensamente potente – eppure ridotta a non aver più nulla.”

Dopo lo splendido ciclo di romanzi costituito da “Satantango”, “Melancolia della resistenza”, “Il ritorno del Barone Wenchkheim” e “Guerra e guerra”, Krasznahorkai torna disponibile per i lettori italiani con una raccolta di racconti ponderosa e ricchissima, che sollecita e interroga, andando a comporre, pagina dopo pagina, una sorta di specchio nel quale riconoscersi –  perché ognuno di noi ha potuto sperimentare in alcuni momenti il potere della grande arte –  e nel contempo perdersi, perché mostra gli abissi di una profondità e di una pienezza spesso solo intuite ma comunque sempre ricercate.

Non vi è dubbio che l’autore ungherese sia con la sua quadrilogia il cantore dell’apocalisse moderna, o meglio, il suo recensore o geniale e immaginifico cronista, colui che mostra, attraverso i suoi personaggi stralunati e i suoi paesaggi, urbani e non, in malinconico disfacimento, il lento e inglorioso avvio del mondo che conosciamo, e in cui siamo immersi, verso la sua fine. Un’apocalisse sempre sottesa e camuffata all’interno di storie e immagini che sono anche vivide metafore, enigmi e giochi strutturali che stupiscono e coinvolgono il lettore, richiedono la sua collaborazione, lo rendono in un certo senso complice dell’autore in un viaggio che sembra infinito, perché Krasznahorkai è uno scrittore estremamente generoso e non dispensa la sua meravigliosa scrittura a piccole dosi, ma al contrario la ama a tal punto da lasciarla scorrere come un fiume in piena.

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PÉTER ESTERHÁZY, “Harmonia Cælestis”

PÉTER ESTERHÁZY, “Harmonia Cælestis”, Feltrinelli
Traduzione di Giorgio Pressburger e Antonio Sciacovelli
Introduzione di Giorgio Pressburger

“Insomma, mi devo mettere a impastare, rimpastare, far lievitare. Ma chi? Mio padre. Devo metterlo su un piedestallo, devo modellarlo, fotografarlo. Raccogliere i pezzi della sua fotografia che una volta mia madre fece a pezzi in un momento di rabbia, e rimetterli insieme. Quando? Nel corso del tempo. E devo preparare degli abbozzi, disegni, dipinture. Mio padre come incisione, acquarello, stampa, caricatura, paesaggio e scena di battaglia.”

Giorgio Pressburger, curatore e traduttore del romanzo di Péter Esterházy, nella sua Introduzione, lo definisce “una delle opere narrative più importanti della letteratura ungherese”, preparando il lettore a quella che si rivelerà una vera e propria avventura, un’immersione all’interno di un magma narrativo infinito, debordante e multiforme. Si potrebbe anche dire avvincente, certo in un modo del tutto particolare, per la varietà dei suoi toni, leggeri, pensosi, ironici, arguti e spesso irresistibilmente comici, illuminati da improvvisi lampi lirici, che impongono, a chi si accinga all’impresa, di seguire l’autore nel suo interminabile divagare in quell’immenso materiale che gli offre la storia della sua famiglia. Péter Esterházy appartiene infatti ad una delle più importanti famiglie aristocratiche ungheresi, discendente da una stirpe il cui albero genealogico si perde nella notte dei tempi, protagonista di spicco dei principali eventi che hanno caratterizzato la storia della sua terra.

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László Krasznahorkai, “Satantango”

LÁSZLÓ KRASZNAHORKAI – Satantango – Bompiani

Satantango

“Cullati dai suoni vellutati della fisarmonica, i ragni della kocsma si lanciarono al loro ultimo attacco. Fecero calare leggere reti sopra le bottiglie, i bicchieri, le tazze, i posacenere, circondarono le gambe dei tavoli e delle sedie, dopo di che – con alcuni lievissimi fili segreti – congiunsero tra loro quelle reti, come se per loro fosse importante percepire ogni minimo movimento, ogni più piccolo fremito, nascosti nelle loro tane oscure e insvelate, finchè quella loro rete misteriosa, perfetta e quasi invisibile, rimaneva inviolata. Intrecciarono i visi degli addormentati, i loro piedi e le loro mani, poi velocissimi corsero a nascondersi nei loro rifugi, per poter ricominciare quel criptico lavorio in attesa del fremito di uno di quei fili tenui come un soffio”.

Così termina la prima parte di “Satantango” e anche il capitolo dedicato a quel tango “satanico” da cui ha origine il titolo musicale, misterioso e anche vagamente inquietante del romanzo, capitolo centrale nell’economia della narrazione, perché prelude ad una svolta, pone termine ad una lunga attesa, celebrando una sorta di rito pagano, dionisiaco si potrebbe dire, perché l’alcool e il ritmo lento e suadente della fisarmonica induce tutti i presenti – il gruppo di protagonisti di questo romanzo corale – ad abbandonare i propri freni inibitori e a lasciarsi trasportare dalla travolgente e nostalgica melodia. E nessuno fa più caso al fatto che la danza calpesti il pavimento lurido di una bettola circondata dal nulla, che i cavalieri siano uomini abbruttiti dalla fatica di una vita precaria e senza speranza, che le dame siano donne squallide e volgari e che tutti indifferentemente siano sotto l’effetto dei litri di pálinka (il tradizionale liquore ungherese) ingurgitati con ingordigia e disperazione.

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Laszlo Krasznahorkai, “Melancolia della resistenza”

LASZLO KRASZNAHORKAI – Melancolia della resistenza – Zandonai

“Aveva visto miliardi di cose inquiete, pronte al cambiamento continuo, aveva visto come dialogavano tra loro severamente senza capo né coda, ognuna per conto proprio; miliardi di relazioni, miliardi di storie, miliardi, ma si riducevano continuamente a una sola, che conteneva tutte le altre: la lotta tra ciò che resiste e ciò che tenta di sconfiggere la resistenza”.

Il romanzo di Laszlo Krasznahorkai possiede uno stupefacente e inconfondibile sapore epico; trasporta il lettore e lo trattiene in un luogo e in un tempo circoscritti e residuali, colti sul limitare di una inquietante apocalisse annunciata, che percorre con lentezza, un passo dopo l’altro nella loro desolazione sempre più minacciosa, facendoli nel contempo assurgere a metafora – una ricca e a suo modo ammaliante metafora – della mancanza di senso, della strenua resistenza alla mancanza di senso e della straordinaria poesia di cui la resistenza – melanconica perché consapevole della inevitabile sconfitta che la attende – si tinge, si colora e si abbellisce per il tempo, pur breve, della sua durata.

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Radnoti, “Mi capirebbero le scimmie”

MIKLOS RADNOTI – “Mi capirebbero le scimmie” – Donzelli

Ho letto (e riletto) queste poesie sentendo nelle orecchie l’eco di un’altra giovane voce, poco più di una promessa, ma una promessa piena di talento e di quella capacità di rendere evocative le immagini e anche le singole parole, infrante o sommerse nell’onda del verso, che è prerogativa dei grandi poeti. Ho letto Miklos Radnoti accomunandolo a Jiri Orten, creando tra loro un ponte ideale, consapevole della contemporaneità della loro esistenza, e della comune tragedia della loro prematura morte. Orten, ebreo destinato al lager e morto nei 1941 a Praga nel giorno del suo ventiduesimo compleanno, sotto le ruote di un’autoambulanza tedesca, ha lasciato nel suo diario poetico, “La cosa chiamata poesia”, accanto alla naturale ansia di vita della sua giovane età, la profonda amarezza di vivere, o meglio sopravvivere, in un tempo ostile, nemico della poesia.

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