CESARE PAVESE – “Feria d’agosto” – Einaudi
“A quei tempi sapevo soltanto che niente comincia se non l’indomani”
I libri di Cesare Pavese hanno il colore e il sapore di una dolente familiarità, appartengono al mio vissuto di lettrice come un luogo che si è a lungo frequentato, in cui forse non si vorrebbe più tornare, ma che è destinato a rimanere per sempre come ammantato da una sorta di aura, ricca di ricordi condivisi. Difficile scordare le colline, la luna, i falò, le storie di quella folla di personaggi che sanno di terra, di fatica e di silenzi, difficile non avvertire la presenza di quel passo lungo, destinato a ripercorrere sempre le strade del ricordo, difficile non provare un cocente rimpianto per una così acuta e dolorosa intelligenza. Ci sono però due libri che hanno trasformato la mia affezione per Pavese in ammirazione, questi libri sono “Feria d’agosto” e “Dialoghi con Leucò”. In queste pagine sembra rivelarsi lo scopo del lavoro letterario di una vita, a queste pagine sembrano tendere le pur brillantissime opere precedenti; un lungo viaggio attraverso temi e storie, attraverso l’affinamento di uno stile che si è fatto via via più pensoso e riflessivo. “Feria d’agosto” è un passo in profondità, il successivo, “Dialoghi con Leucò”, già rivela la maturazione di quella prosa poetica nella quale si può intravedere la promessa di una nuova maturità, il passo successivo, il suicidio, lascia tutti orfani di quel Pavese che non conosceremo mai e la bellezza di quella prosa non fa che acuire il rimpianto.
“Feria d’agosto” è quindi una sosta, come già il titolo suggerisce, una sospensione del tempo narrativo, che permette all’autore di mettere a fuoco i materiali della sua scrittura, per trasformare le sue tematiche in miti. “Feria d’agosto” è una discesa in profondità e, nello stesso tempo, una ricerca che Pavese condivide con i suoi lettori. L’esito, straordinario, è un repertorio di chiavi di lettura, è la possibilità di penetrare nel laboratorio del suo autore. L’esito è un libro ricchissimo, un vero e proprio atlante ragionato che permette al lettore di orientarsi nel mondo di Pavese. Così si impara, con struggente poesia, che cosa rende irraggiungibile la donna: “Ma ormai io non potevo più perdonarle di essere una donna, una che trasforma il sapore remoto del vento in sapore di carne”; che cosa rappresentano le figure naturali: “Quel giorno fu un campo; avrebbe potuto essere una roccia impendente sopra una strada, un albero isolato alla svolta di un colle, una vite sul ciglio di un balzo. Certi colloqui remoti si rapprendono e concretano nel tempo in figure naturali. Queste figure io non le scelgo: sanno esse sorgere, trovarsi sulla mia strada al momento giusto, quando meno ci penso. Non c’è persona di mia conoscenza che abbia un tatto come il loro”; quanto profonda e insuperabile sia la solitudine interiore: “Se mi accade di fermarmi un momento a pensare, nel mio passato non mi ritrovo e le sue agitazioni non le capisco. E’ come se tutto fosse toccato a un altro, e io sbucassi adesso da un nascondiglio, un buco dove fossi vissuto sinora senza saper come. Se non fosse che in questi momenti provo un grande stupore e non mi riconosco nemmeno, direi che il nascondiglio da cui esco è me stesso”; quanto persistenti i ricordi d’infanzia: “Con tanto che ho fatto, veduto e capito nel mondo, mi succede dunque che le cose più mie sono un mucchio di sassi dove mi sedevo allora, una griglia di cantina dove ficcavo gli occhi, una stanza chiusa dove non potevo entrare”. Ci sono poi, preziose per chiunque, ma soprattutto per chi ama la poesia, per chi non può fare a meno della letteratura, pagine dedicate al ricordo che diventa simbolo e mitologia personale, perché “le cose si scoprono, si battezzano, soltanto attraverso i ricordi che se ne hanno. Poiché, rigorosamente, non esiste un veder le cose la prima volta: quella che conta è sempre una seconda”, perché “ci sono cieli e piante, e stagioni e ritorni, ritrovamenti e dolcezze, ma questo è soltanto passato che la vita riplasma come giochi di nubi”.
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