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letteratura italiana

Paolo Volponi, “Memoriale”

PAOLO VOLPONI – Memoriale – Einaudi

memoriale volponi“L’ultima sera dell’anno cominciò a nevicare. Dalla parte del lago non si vedeva niente; si sentivano le anatre selvatiche: forse si mischiavano due branchi o si preparavano a partire. Insieme al loro grido sentivo ancora, fermo sul lago, il mio, perché la neve conserva i rumori e le tristezze, come la paura”.

Considerato un luminoso esempio della cosiddetta “letteratura industriale”, “Memoriale”, un romanzo che ha indubbiamente al suo centro la fabbrica e le modalità di vita e di rapporti umani che essa impone, contestualizzate negli anni del boom economico italiano, come tutte le opere geniali dello spirito e della creatività umane trascende ogni definizione o etichetta e, pur alludendo nell’ambientazione, in alcune tematiche, nella scelta di personaggi emblematici, nel racconto di alcuni avvenimenti genericamente riferibili ai rapporti di classe all’interno del mondo della produzione industriale, al rapporto tra l’uomo e le strutture produttive, spezza le barriere dell’incasellamento di genere e ne prende quasi le distanze, senza negarne validità o senso ma sopravanzandolo in complessità.

Il lungo racconto di Volponi mi appare, addirittura, caratterizzato da una sfumatura decisamente intima; è in ogni sua parte e come annuncia il titolo, una articolata memoria, forse tesa ad assurgere in qualche modo ad esperienza condivisibile o emblematica, o comunque aperta a tale possibilità, memoria individuale che, rendendosi pubblica, assurge alla dignità di un memoriale. Saluggia Albino, voce narrante e protagonista del romanzo, ripercorre con scrupolo di recensore e con coinvolgente intensità emotiva l’insorgere e l’acuirsi di una paranoia che lentamente si manifesta e si aggrava, determina e ostacola la sua esistenza, fino a diventare l’essenza stessa della sua personalità. Un processo lungo e complesso, che occupa gli articolati spazi narrativi del romanzo, introdotti da un incipit nitido, classicheggiante e ritmicamente armonioso, ma anche lucidamente allusivo al contesto storico di riferimento – “I miei mali sono cominciati tutti alcuni mesi dopo il mio ritorno dalla prigionia in Germania, quasi che la terra materna, dopo tanto e così crudele distacco, mi rigettasse.” – e conclusi da una pagina di pura e disarmante poesia, talmente accorata e delicata nel delineare il nitore del paesaggio naturale della terra natale colta sul limitare della morta stagione, da provocare nel lettore un sobbalzo per lo strappo improvviso della categorica  negazione con cui essa, insieme al romanzo, si chiude: “A quel punto ho capito che nessuno può arrivare in mio aiuto”.

Quello che le lunghe memorie ripercorrono è il travaglio di un’anima pura aggrappata all’idealizzazione di sé, del suo mondo, del suo progetto di vita, drammaticamente ostacolata dalle condizioni esterne, dalle strutture sociali, ambigue ed estranianti, che, apparentemente accoglienti, essa avverte come subdolamente nemiche. “Io ho questa sorte del silenzio”, in questo modo Saluggia riconosce lo stigma della propria diversità, il male che si insinua nel suo essere, molto prima dell’insorgere della vera malattia – la tubercolosi che ne discende quasi come una conseguenza logica – quel mondo interiore troppo ricco ed esigente, quella incapacità di galleggiare nelle acque del sentire comune, di abituarsi ai ritmi della vita semplificandola e accettandone la superficialità. Saluggia vive perennemente nell’ansia della non appartenenza, guarda alla vita come ad un ininterrotto seguito di prove da superare o da fallire: superarle significa meritarsi a pieno titolo il diritto all’inserimento nel mondo e all’approvazione della società, ogni fallimento non è che la riprova evidente della propria inadeguatezza ma anche dell’esistenza di una cospirazione generalizzata che si accanisce contro di lui: “Riguardando la mia vita posso vedere che il male ha sempre lottato contro di me dal giorno in cui sono partito da Avignone e che da allora si è servito dei fatti più attesi e più innocenti, delle mie stesse speranze, per colpirmi facilmente e con forza”.

Volponi ha il merito di aver esaltato la psicologia del suo personaggio, di averle permesso di mostrare i passi attraverso i quali si va via via evolvendo e complicando con il lento procedere e acuirsi della duplice malattia, mentale e fisica, la paranoia e la tubercolosi, ponendolo in contatto con l’estraniante realtà del mondo produttivo della fabbrica, con le problematiche legate al rapporto conflittuale tra il mondo contadino della campagna e la città con la sua spersonalizzante frenesia e i suoi ritmi innaturali. Di porre insomma la debolezza psicologica di un individuo in balìa dell’alienazione massificante di un ambiente finalizzato alla produzione e quindi al profitto, senza cadere nella denuncia ideologica, ma indicando già chiaramente – il romanzo è del 1962 – il rischio di spersonalizzazione, l’ansia di prestazione, la frenesia per l’autoaffermazione, i ritmi frenetici, l’incapacità di vivere con soddisfazione ed equilibrio i momenti di solitudine, il distacco dalla dimensione naturale, che sono tutti aspetti ben riconoscibili del mondo contemporaneo.

E’ molto netta nel romanzo la dicotomia tra la campagna e la città, tra il paese dove vive il protagonista sulle sponde del lago di Candia, e Torino, la grande metropoli dove si trova la fabbrica, netta non solo perché detta e affermata, ma soprattutto perché è lo stile stesso della narrazione che la sottolinea, facendosi addirittura lirico, disteso, rasserenante e idilliaco mentre percorre un mondo in armonia mentre il tempo trascolora da una stagione all’altra, dove persino la pena, quando c’è, appare riconoscibile e sicura perché viene da lontano come i cicli stessi della vita. “Io amo la campagna che dice prima, con strade e viottoli, che cosa si deve fare e che si fa vedere tutta, onestamente”. Paradossalmente è proprio questo il luogo in cui Saluggia soffre i suoi tormenti, nutre le sue paranoie ed elabora i suoi sconclusionati piani di rivalsa, forse perché è alla tana che torna ogni animale ferito. La città, al contrario, è il luogo dell’azione, organizzata ed equilibrata o assurda e maniacale che sia. E la città, quasi sempre, si identifica con la fabbrica e con il lavoro.

Nella fabbrica, intorno alla fabbrica, nei luoghi in cui la fabbrica decide di mandare il povero Saluggia, nella umanità che la popola, il romanzo si dispiega e tocca la sua più dolorosa intensità. Perché la fabbrica è all’origine del drammatico fraintendimento in cui l’uomo, con tutta la sua fragilità, incappa, l’errore, o meglio l’illusione, di far parte, varcandone l’ingresso, di un luogo reale di aggregazione in cui potersi identificare o, come si suole dire, realizzare. L’illusione di essere finalmente parte di una socialità che lo riconosce e che è disposta a farsi da lui riconoscere ben presto si dissolve dando la stura ad un rovinoso processo di reale alienazione, mediante il quale il protagonista perde gradualmente il contatto con la realtà. La fabbrica, grande, pulita e misteriosa, “immobile come una chiesa o un tribunale” è un ordine perfetto, un motore funzionante, ligia a regole e procedure, un immenso guscio vuoto che assorbe energie e volontà ma che non è in grado di rendere in cambio nulla che attenga ai bisogni spirituali di un individuo fragile e solo. Quella di Saluggia diventa allora una lotta contro i mulini a vento, fatta ancora di illusione e disillusione, di ribellione contro la fabbrica, la società, il proprio corpo e la sua stessa misconosciuta malattia, una ribellione che Volponi fa vivere al lettore attraverso episodi grotteschi, dove anche la fede in Dio, l’amore, la superstizione, la malattia, gli stessi affetti familiari assumono un aspetto distorto e beffardo, come se permanessero sotto la lente deformante di una mente incapace di uscire dalla mania di persecuzione che la affligge. Le pagine si susseguono nello stesso ritmo vertiginoso e tormentato di questa mente che si racconta ma non si pacifica, finché su tutto, sul dolore della inadeguatezza e della solitudine, non appare il lago che respira piano tra le sue sponde, nel nitore del pomeriggio, ad indicare, forse, un significato muto.

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Francesco Luigi Bovi
Francesco Luigi Bovi
9 years ago

Carissima Anna, la tua brillante ed acuta lettura di “Memoriale” ha ridestato in me certi ricordi un po’ sbiaditi della mia formazione letteraria, di quando tanti anni orsono ho ‘scoperto’ Paolo Volponi leggendo proprio questa sua opera, definita il ‘romanzo di esordio’ dello scrittore urbinate. Di certo ne rimasi colpito, forse perché non mi aspettavo di ritrovarmi tra le mani questo ‘genere’ di letteratura avente per oggetto il lavoro nell’industria italiana del boom, ma hai ragione tu, è un romanzo che “spezza le barriere dell’incasellamento di genere”. Mi sembrò tuttavia una scrittura tanto poeticamente oggettiva quanto sociologicamente affabulante nell’analizzare il travaglio psicofisico del protagonista. Inoltre, una scrittura senz’altro profetica, come tu stessa hai puntualmente riscontrato, rinvenendo nel romanzo una critica degli aspetti negativi della vita di oggi (“il rischio di spersonalizzazione, l’ansia di prestazione, la frenesia per l’autoaffermazione, i ritmi frenetici,…). Non ravvisai invece nella narrazione quella che tu definisci “la dicotomia tra la campagna e la città”, un’antitesi perfettamente individuata dalla tua analisi e rimarcata dal Volponi ricorrendo da un lato alle sue competenze di sociologo rurale ante litteram, e dall’altro attingendo alla sua esperienza di dirigente maturata nell’illuminata azienda di Adriano Olivetti, che ho ritrovato in seguito nelle pagine di “Le mosche del capitale” (opera di cui mi piacerebbe conoscere il tuo pensiero), benché compongano un plot allegorico e a tratti incredibilmente comico. Dunque è stata una delizia ri-leggere “Memoriale” con l’aiuto della tua interpretazione Anna, te ne sono infinitamente grato. A presto! Francesco