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letteratura argentina

Bioy Casares, “Diario della Guerra al Maiale”

ADOLFO BIOY CASARES – “Diario della Guerra al Maiale” – Cavallo di Ferro

“Vidal pensò che nella vita arriva sicuramente un momento in cui una persona, qualunque cosa faccia, annoia soltanto. Resta allora solo un modo per recuperare il prestigio: morire”.

E’ un grande personaggio, don Isodoro Vidal, che a tratti mi ha ricordato i protagonisti di alcuni romanzi di Saramago. In questa folle e crudele guerra che i giovani conducono contro i vecchi, i “maiali” (“- Dicono che i vecchi – spiegò Arévalo – sono egoisti, materialisti, voraci, rognosi. Dei veri maiali.”), raccontata nella sua evoluzione, dalle prime incerte avvisaglie, al suo assurdo divampare, fino alla sua repentina e inspiegabile conclusione, nelle pagine del Diario, lui rappresenta uno dei protagonisti, ma anche l’osservatore, colui che, seppur implicato, prova a cercare un senso a ciò che avviene, a mantenere nel limite del possibile la distanza necessaria alla comprensione. E riempie lo spazio che faticosamente conquista tra sé e tutta la violenza gratuita che lo stringe sempre più da vicino, di ricordi, di tempo passato, di vita trascorsa, di riflessioni, che sono lampi improvvisi di sconsolata evidenza, di pacata e insieme acuta saggezza e anche, naturalmente, di disillusione (“L’accettazione delle proprie limitazioni può essere una triste saggezza”). Perché Casares in questo libro parla della vecchiaia, andando a cogliere il suo aspetto forse più inaccettabile: non tanto l’inevitabile avvicinarsi della morte, quanto il progressivo senso di estraneità nei confronti della vita. (“Vidal pensò che vivere è distrarsi”). Ma, ovviamente, ne parla nel modo che gli è congeniale, utilizzando l’invenzione, creando una trama fantastica e dando consistenza, spessore e visibilità alle sensazioni e alle paure che l’approssimarsi della fine della vita porta con sé.

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letteratura uruguaiana

Hernandez, “Nessuno accendeva le lampade”

FELISBERTO HERNANDEZ – “Nessuno accendeva le lampade” – laNuovafrontiera

“Tu non hai bisogno, a volte, di una grande solitudine?”

Ecco che cosa succede se il giorno lentamente muore e nessuno accende le lampade, se si evita la luce troppo cruda e se si viene introdotti nelle stanze ombrose di antichi palazzi, in bui locali di periferia o in improbabili negozi affollati di oggetti inusuali: ci si ritrova nel mondo di Hernandez, frutto della sua “immaginazione ingannata”, dei suoi “scherzi del buio”. I personaggi di questi racconti si muovono in una realtà che permane al limitare del sogno, che trascorre in un incerto paesaggio tra il sonno e la veglia. Strane malattie affliggono e insieme identificano le ombre che si ha la ventura di incontrare, forse si tratta di malattie mentali che si rivelano però innocue o, addirittura, rivelatrici: sonnambulismo, vista interiore, oscure manie che obbligano ad elaborare e a celebrare complicati riti, giochi dalle regole ferree da praticare al buio, perché la luce nasconde e confonde. E’ un mondo dove si provano “strane sofferenze” e a tratti, improvvisa, una “imprevista conoscenza di se stessi”, ma, per farlo, bisogna lasciare le apparenze, accettare persino l’incertezza e l’azzardo della metamorfosi.

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letteratura italiana

Pavese, “Feria d’agosto”

CESARE PAVESE – “Feria d’agosto” – Einaudi

“A quei tempi sapevo soltanto che niente comincia se non l’indomani”

I libri di Cesare Pavese hanno il colore e il sapore di una dolente familiarità, appartengono al mio vissuto di lettrice come un luogo che si è a lungo frequentato, in cui forse non si vorrebbe più tornare, ma che è destinato a rimanere per sempre come ammantato da una sorta di aura, ricca di ricordi condivisi. Difficile scordare le colline, la luna, i falò, le storie di quella folla di personaggi che sanno di terra, di fatica e di silenzi, difficile non avvertire la presenza di quel passo lungo, destinato a ripercorrere sempre le strade del ricordo, difficile non provare un cocente rimpianto per una così acuta e dolorosa intelligenza. Ci sono però due libri che hanno trasformato la mia affezione per Pavese in ammirazione, questi libri sono “Feria d’agosto” e “Dialoghi con Leucò”. In queste pagine sembra rivelarsi lo scopo del lavoro letterario di una vita, a queste pagine sembrano tendere le pur brillantissime opere precedenti; un lungo viaggio attraverso temi e storie, attraverso l’affinamento di uno stile che si è fatto via via più pensoso e riflessivo. “Feria d’agosto” è un passo in profondità, il successivo, “Dialoghi con Leucò”, già rivela la maturazione di quella prosa poetica nella quale si può intravedere la promessa di una nuova maturità, il passo successivo, il suicidio, lascia tutti orfani di quel Pavese che non conosceremo mai e la bellezza di quella prosa non fa che acuire il rimpianto.

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letteratura francese

Bataille, “L’azzurro del cielo”

GEORGES BATAILLE – “L’azzurro del cielo” – Einaudi

“Lo so.

Morrò in condizioni disonoranti.

Oggi, mi compiaccio d’essere oggetto d’orrore, di disgusto, per l’unica persona cui sono legato.

E’ quel che voglio: quel che di peggio può capitare a un uomo che ne rida.

La testa vuota, in cui io sono, è diventata così paurosa, così avida, che solo la morte la può appagare.”

Ho letto tempo fa i saggi di Bataille su Bronte, Baudelaire, Michelet, Blake, Sade, Proust, Kafka e Genet, contenuti nel volume “La letteratura e il male” e li ho trovati estremamente ricchi ma, soprattutto, permeati da una visione libera e acuta della letteratura, tesa ad individuare in ognuno degli autori considerati la capacità di violare le convenzioni, di infrangere i divieti, di inoltrarsi, mediante la scrittura, nel territorio della trasgressione e della sovversione. Bataille considera autentica solo quella letteratura che è in grado di compiere atti di coraggio, di mettere in discussione le norme convenzionali; il vero scrittore, secondo il suo pensiero, è “cosciente di essere colpevole e per lui il peccato o la condanna non sono l’occasione forzata del pentimento, ma il culmine della sua realizzazione”. Aspettavo quindi l’occasione di imbattermi in una delle opere letterarie di questo filosofo e intellettuale fondamentale nella cultura francese del Novecento, che ha avuto stretti contatti con la cerchia dei surrealisti (entrando in polemica con Breton) e che, per molti aspetti, è riconducibile alla corrente filosofico-letteraria dell’esistenzialismo (anche se Sartre ebbe a definirlo paranoico e folle). L’ho fatto leggendo questo suo romanzo, molto meno noto di “L’erotismo” o di “Storia dell’occhio” ma, forse, il suo più poetico (e poesia è per Bataille “ricerca dolorante”).

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letteratura americana

Ford, “Rock Springs”

RICHARD FORD – “Rock Springs” – Feltrinelli

Un’incursione nella letteratura americana contemporanea, un breve soggiorno in un territorio che non è il mio, l’incontro con una scrittura nitida, cristallina e sorprendentemente onesta. Dieci racconti brevi, nei quali è racchiuso un paesaggio, che diventa immediatamente familiare, ed entro i quali si muovono personaggi che non sembrano aver bisogno di una riga in più per manifestare la loro essenza. Richard Ford mi ha riservato parecchie sorprese, prima fra tutte quella di uno stile che permette al lettore di entrare con facilità nel suo mondo letterario, cosa per nulla semplice né scontata. Ci si accorge presto leggendo questi racconti che i loro incipit, diretti, essenziali, quasi affrettati, hanno lo scopo di preparare il terreno, di disegnare delle coordinate, di delineare il quadro generale di una situazione che, nel corso del racconto, in un modo o nell’altro, subirà un mutamento decisivo e che proprio su questo mutamento l’autore vuole che il lettore si soffermi. Come, d’altra parte, ci si abitua presto ad individuare il punto in cui, in ogni racconto, la penna di Ford rallenta fino alla sospensione, si impadronisce di un piccolo squarcio di realtà, di un particolare in apparenza insignificante, e lo trasforma in qualcosa di prezioso, lirico e persino commovente.

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letteratura americana

Melville, “Benito Cereno”

HERMAN MELVILLE – “Benito Cereno” – Einaudi

“Benito Cereno” è il racconto che pone termine al decennio creativo di Melville e che prelude al lungo mutismo letterario che continuerà fino alla sua morte, fatta eccezione per la novella “Billy Budd”, composta qualche mese prima della fine. Solo quattro anni separano “Benito Cereno” da “Moby Dick” e Melville condensa qui, in poche pagine, la ricchezza di uno stile sempre più evocativo, basato su simboli e corrispondenze, nell’intento di sondare, ma anche di trasfigurare, i dati della realtà sensibile. E’ inevitabile leggere questo racconto avendo come pietra di paragone “Moby Dick” o, almeno, ricordandone la peculiare caratteristica, quel suo tono mistico di predicazione sacra, che trasfigura la storia di mare in una lotta epica tra bene e male, anzi, nella lotta tra due potenze contrapposte, fatta di vendetta, accanimento, di morbosità, il tutto sostenuto da uno stile di scrittura che si fa a tratti apocalittico. Dopo “Moby Dick”,  le storie di mare di Melville non possono trovare il lettore impreparato, dopo “Moby Dick” è chiaro che l’avventura è sporgersi su un abisso, perché, come dice Michele Mari ne “I demoni e la pasta sfoglia”, “Melville sapeva che non c’è conflitto che non renda uguali al nemico, non c’è abisso in cui si possa guardare impunemente”. E quindi, chi si appresta a leggere “Benito Cereno” non si faccia ingannare dall’incipit, classico esordio che sembra preludere ad un canonico racconto di mare, perfettamente in linea con la tradizione ottocentesca, perché bastano poche pagine e ci si ritrova in piena bonaccia, reale e metaforica.

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letteratura austriaca

Lernet-Holenia, “Lo stendardo”

ALEXANDER LERNET-HOLENIA – “Lo stendardo” – Adelphi

Nato nel 1897 e morto nel 1976, Lernet-Holenia ha avuto l’opportunità di essere consapevole testimone del tramonto dell’impero e della nascita del mito asburgico, di quella sua sopravvivenza nella memoria, nel ricordo e nella nostalgia che ha regalato alla letteratura mitteleuropea tante opere di inestimabile valore. La fine di un mondo ha il potere di racchiudere in sé, quasi miracolosamente illuminato, reso tangibile nella sua essenza, depurato da ogni orpello esteriore, ciò di cui era costituito, di fissare per sempre i suoi lineamenti, di renderli immediatamente riconoscibili. Non stupisce quindi il fatto di ritrovare tutto ciò nel romanzo “Lo stendardo”, opera del 1934, perché, come afferma Magris nel suo ricchissimo e fondamentale saggio “Il mito absburgico nella letteratura austriaca moderna”, “Il mito asburgico, lungi dal morire con la fine dell’Impero, sembra anzi avere iniziato con questa la sua più suggestiva e interessante stagione”, d’altra parte il mito non si nutre certo di una realtà oggettiva, ma di memoria e di nostalgia, affidate alla parola. La grande tradizione della narrativa austriaca del Novecento appare permeata, definita e, addirittura sconvolta da una trasformazione così radicale di tutta una civiltà, dal passaggio dalla sicurezza e dall’ordine, alla scoperta del disordine del mondo.

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letteratura ceca

Weiner, Deml , “Assemblea generale. La luce dimenticata”

WEINER RICHARD, DEML JAKUB – “Assemblea generale. La luce dimenticata” – Poldi libri

“Dulcamara per Deml e Weiner”

Ho letto, per ora, solo la postfazione di Sergio Corduas per questo suo titolo, bellissimo e accattivante. E perchè parla di cechi e di letteratura ceca. E perchè scrive frasi come queste:

“Ho scelto questi due scrittori e li ho voluti insieme perchè ambedue mordono e fanno male.”

“Lo scrittore vero, almeno nel Novecento e ora (ma forse a partire dai maudits), ci deve ammalare. E guarisce (transitivo), sì, perchè ci dona quel certo testo bello finito compiuto; ma non può farlo senza dar testimonianza veritiera dell’orrendo stato delle cose dell’animo, dell’anima, del mondo.”

“Belli e pericolosi, trappole, cartine tornasole, dure prove. Questo sono i due testi.”

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letteratura austriaca

Bernhard, “Teatro V. Il Presidente. Il teatrante. Elisabetta II”

THOMAS BERNHARD – “Teatro V. Il Presidente. Il teatrante. Elisabetta II” – ubulibri

Traduttori: Eugenio Bernardi, Umberto Gandini.

Teatro V

Nella mia esperienza di lettrice, non ho ancora trovato un autore nella cui opera sia possibile constatare una così straordinaria contaminazione di generi, direi quasi assimilazione, quanto in Bernhard. La sua narrativa monologante sconfina nella teatralità, ogni suo dramma, così essenziale nell’azione scenica, ma così denso e pregnante nella scelta delle parole, possiede la forma evocativa della poesia, i suoi testi poetici (purtroppo conosco solo i pochi che sono disponibili in traduzione per i lettori italiani) hanno il sapore di volta in volta dell’invettiva, del ragionamento condotto alle estreme conseguenze, del delirio e della provocazione, che il lettore ben conosce per averli tante volte sentiti pronunciare dai protagonisti lucidi e desolati dei suoi romanzi. Sarà forse per questo che, giunta alla fine della lettura del quinto volume dei testi teatrali di Bernhard, pubblicati dalla ubulibri (di un possibile sesto volume ho perso le speranze, pur essendo stato annunciato dalla casa editrice) mi sono resa conto di aver raggiunto quel senso di “assuefazione” che ritengo ideale per poter apprezzare pienamente la bellezza di questi testi.

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letteratura polacca

Konwicki, “Piccola apocalisse”

TADEUSZ KONWICKI – “Piccola apocalisse” – Feltrinelli

“Sono affamato di uomini. Di veri uomini dotati di senso dell’onore, di dignità. Riservati, virili, ascetici, cavallereschi. Ed eccoci intorno dappertutto piccole donnette in calzoni. Donnette maschio coi capelli lunghi, gorgerine e scollaturine. Befane avide, ingorde, svergognate , coi pene nascosti nelle mutande di trina. Sono rimasto solo con fraschette, donnicciole, puttanelle e perisco perchè tutto mi è contro. Tutto mi schiaffeggia, mi offende, mi sbatte fuori a calci dalla vita.”