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letteratura ceca

Johannes Urzidil, “L’amata perduta”

JOHANNES URZIDIL – L’amata perduta – Adelphi

“Chi canterà, se io non ci sono, la melodia delle case e delle strade, il tardo bagliore del sole sui merli delle torri, la pensosità delle cariatidi, chi intonerà il canto sommesso delle vecchie venditrici di ciambelle nel parco, i destini delle sponde del fiume e la maestà dei loro ponti?”

Praga, la città che si nega, la traccia indelebile di una vita che non ritorna né si consuma, la città indefinibile e allusiva, eccentrica e conturbante, amata, appunto, e perduta e, proprio perché perduta, destinata a non essere mai afferrata e compresa totalmente e a trasformarsi nel mito di se stessa. Praga incarna nella cultura mitteleuropea il topos letterario della nostalgia e possiede infiniti repertori di suggestioni in grado di mantenere viva, intatta, la sua parvenza di città del sogno. Ma la nostalgia è un terreno fertile, che si lascia percorrere e che, anzi, chiede di essere percorso; la nostalgia può essere interrogata e indagata, può essere cantata e celebrata e, infine, può essere scandagliata, con scrupolo e attenzione, perché si vuole tenerla in vita e sostare a lungo nei suoi territori, nell’illusione di ritrovare il tempo già vissuto. Leggendo “L’amata perduta” di Johannes Urzidil sono tornata spesso alle pagine di due bellissimi testi che, da sempre, costituiscono due imprescindibili guide per le mie incursioni nella letteratura ceca, ma anche, più in generale, mitteleuropea. Il primo è il ricco saggio di Claudio Magris “Praga al quadrato” (in “Alfabeti”), il secondo è il capolavoro di Angelo Maria Ripellino, “Praga magica”.

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letteratura tedesca

Uwe Tellkamp, “La torre”

UWE TELLKAMP – La torre – Bompiani

“Cercando, il fiume sembrava tendersi nella notte che principiava, la pelle si sgualciva e crepitava; pareva voler precedere il vento che si alzava in città, quando il traffico sui ponti era ridotto a poche auto e sporadici tram, il vento proveniente dal mare che circondava l’Unione Sovietica, l’Impero Rosso, l’Arcipelago, venato inframmezzato pervaso da arterie vene capillari del fiume alimentato dal mare, nella notte, il fiume che portava i rumori e i pensieri alla superficie scintillante, il riso, la serietà e l’allegria nella crescente oscurità…”

 Queste sono le note d’apertura dell’ouverture che dà inizio alla lunga e complessa sinfonia di un romanzo musicalmente strutturato, costituito da una ouverture, un primo movimento, un interludio, un secondo movimento e un finale. Una struttura necessaria a contenere e a trattenere una materia narrativa debordante e lussureggiante. “La torre” è un romanzo recente, è stato pubblicato nel 2008 e ha permesso al suo autore, Uwe Tellkamp (nato a Dresda nel 1968), di ricevere nello stesso anno il Premio Uwe Johnson. Tre anni prima, per il romanzo “Der Eisvogel”, gli era stato assegnato il Premio Ingeborg Bachmann. Premi dedicati a nomi di grande prestigio della letteratura tedesca contemporanea che, se non possono certo essere da soli una garanzia di merito per l’autore, predispongono però favorevolmente il lettore che si appresta all’impresa di inoltrarsi nel mondo de “La torre” (un viaggio lungo circa 1300 pagine).

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letteratura tedesca

Jakob Wassermann, “Caspar Hauser o l’ignavia del cuore”

JAKOB WASSERMANN – Caspar Hauser o l’ignavia del cuore – B.U.R.

caspar_hauserIl 26 maggio 1828, lunedì di Pentecoste, in una piazza di Norimberga, avviene un fatto strano e inquietante, destinato a suscitare una morbosa curiosità, prima tra gli abitanti della città, e poi in tutto il Regno di Baviera, a generare una quantità di ipotesi interpretative da parte di uomini di legge e di cultura, e a tramutarsi in seguito in fertile fonte di ispirazione per molti scrittori, diventando un caso la cui eco è giunta fino alla nostra epoca (è del 1974 il film “L’enigma di Kaspar Hauser”, scritto e diretto da Werner Herzog). In pieno pomeriggio, in quella piazza, compare dal nulla un ragazzo dall’apparente età di sedici anni, vestito con abiti contadini. Il ragazzo si muove con un portamento da ubriaco, non riesce a stare diritto e fatica a muovere i piedi che appaiono feriti e ulcerati. Si guarda intorno, spaesato e meravigliato, come se vedesse il mondo per la prima volta, con gli occhi socchiusi per proteggersi dalla luce. Piange ed è affamato, ma rifiuta con orrore e ribrezzo cibi e bevande, tranne il pane nero e l’acqua. Si esprime con pianti, grida di dolore e suoni incomprensibili, pronunciando un’unica frase di senso compiuto, che ripete in modo ossessivo, come un ritornello: “Diventare cavaliere, come mio padre”. Così compare dal nulla Kaspar Hauser, l’enigma vivente destinato a diventare tanto popolare da essere chiamato “il Fanciullo d’Europa”, e al nulla ritorna in modo altrettanto misterioso, nel 1833, quando viene pugnalato a morte da uno sconosciuto nella cittadina bavarese di Ansbach, dove è sepolto. Sulla sua lapide si legge: “Qui riposa Kaspar Hauser, enigma del suo tempo. Ignota la sua origine, misteriosa la sua morte”.

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letteratura austriaca

Thomas Bernhard, “Goethe muore”

THOMAS BERNHARD – Goethe muore –  Adelphi

Traduzione di Elisabetta Dell’Anna Ciancia

rsz_gothe-muore“La difficoltà di scrivere sulla filosofia di Wittgenstein, e soprattutto sulla sua poesia, infatti secondo il mio punto di vista si tratta nel caso di Wittgenstein di un intelletto (cervello) poetico, e dunque di un cervello filosofico, ma non di un filosofo, è la difficoltà più grande che vi sia. E’ come se io dovessi scrivere qualcosa (proposizioni) su me stesso, e questo non può essere […]. La questione è se io posso scrivere su Wittgenstein un attimo senza distruggere lui (Wittgenstein) o me stesso (Bernhard) […]. Wittgenstein è una domanda alla quale io non posso rispondere… Così io non scrivo su Wittgenstein non perché non posso, bensì perché io non posso rispondergli”.

 Così scrive Thomas Bernhard in una lettera a Hilde Spiel, sua amica e scrittrice viennese, il 2 marzo 1971. La citazione è riportata da Aldo Gargani nel suo bel saggio “La vita scritta in Thomas Bernhard”, pubblicato nel numero monografico di gennaio-giugno 2007 (N° 32) della rivista “Cultura tedesca”. Nel 1982, con l’uscita di “Goethe muore”, Bernhard dimostra di aver trovato il modo, se non di scrivere su Ludwig Wittgenstein, di celebrare il suo intelletto poetico, e dunque filosofico. Lo fa a modo suo, mettendo in piedi un vero e proprio feuilleton filosofico, un controromanzo costruito su di una strategia diffamatoria. Il diffamato è Goethe, diffamato, dissacrato, ridicolizzato nei suoi ultimi giorni di vita, sul suo letto di morte, addirittura nel momento solenne delle sue ultime parole. Diffamare Goethe per elogiare Wittgenstein attraverso la sua opera, il “Tractatus Logico-Philosophicus”. Goethe muore tenendo il Tractatus sotto il cuscino, mettendolo quindi, in ordine di importanza, al di sopra del “Faust” e del mito che esso rappresenta per la cultura tedesca, mettendolo anche – sembra dire l’autore – quasi al di sopra dello stesso Wittgenstein che, vanamente mandato a chiamare, risultando prematuramente morto, non si presenterà mai al suo cappezzale. Bernhard mette in scena l’elogio funebre del filosofo in modo paradossale e grottesco, costruendo un impianto narrativo logico, basato però su mezzi e materiali privi di apparente logica.

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letteratura tedesca

Gottfried Benn, “Morgue”

GOTTFRIED BENN – “Morgue” – Einaudi

benn-morgue“Era un ciclo di sei poesie che affluirono e s’avventarono tutte nello stesso momento, esistettero, prima di esse non esisteva nulla; allorchè lo stato crepuscolare fu al suo termine, restai vuoto, affamato, barcollante e me ne uscii in silenzio dal grande sfacelo”.

Così scrive lo stesso Benn rievocando quella sorta di furia compositiva che sembra avere accompagnato la stesura di questa raccolta, costituita da versi che appaiono al loro autore come relitti scampati, o forse originati, dal grande sfacelo del mondo. In “Morgue” si avverte la giovinezza, l’intransigenza e l’irriducibilità della giovinezza, come si avverte la familiarità con gli aspetti più prosaici della corruzione dei corpi, della malattia, della morte e della decomposizione. Ma, soprattutto, si avverte la consuetudine con un uso perentorio e totalizzante della parola poetica che, nelle mani dell’autore diventa, letteralmente, un bisturi affilato che si apre deciso la strada verso la più nuda e spoglia e desolatamente orrida realtà delle cose. Perché la poesia o è totalizzante o non è, la poesia non media e si nutre di essenza, a qualsiasi altezza o in qualsiasi abisso essa si nasconda. La poesia forza le serrature imposte da convenzioni, regole sociali, cliché letterari, gusti del pubblico. La poesia sovverte, apre finestre su scenari che forse si preferirebbe non vedere e, intanto, abbaglia e affascina. I versi di Benn lo fanno “urtando” il lettore, obbligandolo a fissare l’interno della Morgue, perché è lì che finiscono i relitti della vita, lì si raccoglie ciò che rimane.

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letteratura tedesca

Johnson, “Un viaggio a Klagenfurt”

UWE JOHNSON – “Un viaggio a Klagenfurt” – SE

viaggio-a-klagenfurt“Chi ammira con gli occhi la bellezza/ è già consegnato alla morte” (August Von Platen)

Sembra che fossero tra i versi prediletti di Ingeborg Bachmann, di questa poetessa così apprezzata da tanti grandi scrittori suoi contemporanei, la cui tragica, prematura e anche assurda morte, avvenuta a Roma il 17 ottobre 1973, li ha lasciati orfani di una voce tanto ammirata e amata. Mi piace molto la poesia della Bachmann e, se questa espressione avesse senso, non esiterei a definirla in assoluto la mia poetessa preferita, e uno dei miei poeti preferiti. Un’affezione che ha richiesto tempo e riletture, un po’ per l’inevitabile ostacolo rappresentato dalla traduzione, un po’ perché i versi della Bachmann non affidano certo la loro bellezza alla immediatezza; i suoi versi sono, sempre, un percorso sofferto che conduce ad abbaglianti e improvvise rivelazioni, attraverso strade anguste, costellate di ostacoli a prima vista insormontabili. La Bachmann è una poetessa colta, raffinata, complessa, dotata di un’anima estremamente sensibile che si ammanta della sua fragilità e ne fa un espediente per forzare il lessico abituale e prevedibile, per costringere le parole ad intraprendere un viaggio verso un’impossibile verità, “in cerca di frasi vere”, sull’onda di una musicalità spezzata, dissonante, sempre sorprendente. Mi piace molto la poesia della Bachmann e mi piace trovare una conferma a questa mia affezione nelle parole che i grandi scrittori tedeschi a lei contemporanei le hanno dedicato anche, ma ovviamente non solo, in occasione della sua morte improvvisa. Definirli necrologi mi appare riduttivo, si devono considerare piuttosto attestazioni di ammirazione e di rimpianto, dichiarazioni d’amore, tentativi per elaborare il dolore di un lutto.

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letteratura inglese

Lowry, “Buio come la tomba dove giace il mio amico”

MALCOLM LOWRY – “Buio come la tomba dove giace il mio amico” – Mondadori

Si legge questo libro come tributo al Console di “Sotto il vulcano”, come un pegno pagato alla nostalgia che il protagonista del romanzo più famoso di Lowry, ma anche le atmosfere e i luoghi in cui si aggira quell’indimenticabile “divagatore alcolizzato” lasciano nel lettore. C’è un legame talmente stretto tra i due romanzi, che non è quasi possibile comprendere e apprezzare questo “Buio come la tomba dove giace il mio amico”, così colmo di allusioni, ricordi e riferimenti all’opera precedente, prescindendo dalla sua conoscenza o, addirittura, in molti casi, dalla sua puntuale consultazione. Eppure non si tratta di una semplice continuazione; d’altra parte Lowry può essere definito in molti modi, ma sicuramente è uno scrittore tutt’altro che semplice. Il suo fascino risiede tra le pieghe di una complessità che continuamente interroga il lettore. Una complessità che investe prima di tutto la natura della sua intera produzione. Come spiega Alex R. Falzon nella Postfazione alla presente edizione, il programma letterario di Lowry si basa su un metodo di lavoro eccentrico, originale e, forse, eccessivamente ambizioso. Tutte le sue opere contribuiscono alla realizzazione di un unico, immenso progetto, un vero e proprio ciclo, di cui ogni romanzo o racconto costituisce un tassello, indispensabile per la costruzione del disegno finale, dal titolo “Il viaggio che non ha fine”.

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letteratura ceca letteratura tedesca

Weiss, “La prova del fuoco”

ERNST WEISS – La prova del fuoco – SILVY edizioni

“La prova del fuoco” di Ernst Weiss è un libro che stupisce, interroga, ferisce e crea un disagio che procede di pari passo con una progressiva e infine convinta ammirazione. Un libro che sottopone lo stesso lettore ad una prova rigorosa e severa. Non esistono in queste pagine cedimenti o sconti, né per il protagonista, né per lo scrittore, né, tantomeno, per il lettore. “Tutta questa letteratura è assalto al limite”: così Kafka scriveva nei suoi “Diari” nel 1922, riferendosi alla produzione letteraria della sua generazione di scrittori ebreo tedeschi praghesi. E non credo che si possa dare di questo romanzo una definizione più calzante. Queste pagine sono un assalto al limite, una cavalcata verso l’indicibile, un’energica spallata ad ogni codificata regola della narrazione. Già leggendo la prima pagina – lo splendido incipit che emoziona per la sua lucidità, per il suo essere refrattario ad ogni trucco psicologico o sentimentale, per la sua eloquenza intellettuale – mi chiedevo dove la mia esperienza di lettrice avesse incontrato una sensazione di desolante spaesamento paragonabile a quella costruita da Weiss, una simile sensazione di assoluta abdicazione, un simile assalto al limite ultimo che è, forse, quello dell’identità. “Non so chi ero, non so chi sono. Non so chi sia l’uomo che scrive questo resoconto e definisce tutto ciò che segue realtà, non sogno”.

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letteratura italiana

Trevisan, “Shorts”

VITALIANO TREVISAN – “Shorts” – Einaudi

“Da chi, da che cosa sono dunque posseduto?, mi chiesi ancora aprendo la finestra.”

Vediamo allora, se si può, per quel tanto che si può, di provare a dare una risposta a questa domanda, nel tentativo, anche, di capire le ragioni di una predilezione, la mia, per questo autore. Bernhard, prima di tutto. Sì, perché non si scrive sul vuoto e non si legge sul vuoto. Non esiste una tabula rasa sulla quale dal nulla compaiono le parole, le frasi, i testi che pretendono di essere scritti o che sono destinati a permanere nella memoria del lettore, finendo per determinare un’inclinazione, un gusto letterario e, quindi, anche le future letture. Ho iniziato a leggere Trevisan per via di un riconoscimento nella comune ammirazione per Thomas Bernhard e ho imparato ad apprezzare la sua voce energica, ironica e tagliente, sia nella prosa che nei testi teatrali, tanto sorprendente in quanto distante dalla voce omologata e prevedibile di tanti autori italiani contemporanei. “Shorts” rappresenta per me una felice riconferma. Da chi e da che cosa è posseduto Vitaliano Trevisan mentre scrive questi racconti? Indubbiamente dal suo maestro, indubbiamente, in particolare, da quella produzione di prose brevi del drammaturgo austriaco, forse meno conosciute, ma nelle quali si trovano, distillati e come ulteriormente purificati, i temi della sua opera.

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letteratura polacca

“Il diario di Dawid Rubinowicz”

“Il diario di Dawid Rubinowicz” – Einaudi

“Siamo preparati a tutto a braccia aperte”

La sorte ha voluto che Dawid Rubinowicz nascesse in Polonia, nel distretto di Radom e che avesse undici anni nel 1940. La sorte ha voluto che assistesse nei due anni successivi allo stillicidio di discriminazioni, imposizioni e violenze culminate col trasferimento della popolazione ebraica del distretto nel campo di concentramento di Treblinka e, quindi, col suo annientamento. Il fatto che Dawid avesse l’attitudine, e l’abitudine, alla scrittura non dipende però dalla sorte, ma dalle sue personali inclinazioni, dalla conformazione, irripetibile, della sua personalità. Una scrittura da ragazzino, legata ai fatti e, forse, al bisogno di riordinarli, guidata da una sorta di innata diligenza. In alcuni punti viene addirittura il dubbio che, almeno all’inizio, questo diario sia nato come compito scolastico. Non è un caso se la testimonianza più completa su Dawid rimane quella della sua maestra, che ne fa un ritratto semplice, del tutto privo di ogni intento sentimentale o celebrativo, solo soffuso di una inevitabile malinconia: “Era un bimbo curioso, io lo ricordo benissimo. Biondo, con gli occhi azzurri: bellino, un po’ smarrito. Biondo come un tedesco. Se voleva poteva salvarsi: ma era molto attaccato ai suoi, non voleva mai lasciarli. Veniva a scuola come tutti gli altri. Ho in mente il suo berrettino di pezza, la borsetta legata dietro la schiena. I bambini da noi vanno a scuola così. Sono bambini di campagna: figli di contadini, di piccoli mercanti di bestiame, di boscaioli. Avevo quattro scolari ebrei. Non c’era nessuna differenza fra gli scolari polacchi, prima della guerra. Spariti, tutti spariti. Dawid era molto educato, ricordo. Nei suoi esercizi di composizione c’erano sempre delle osservazioni strane. Il gracchiare dei corvi gli metteva paura, gli facevano paura i topi che rosicchiavano le barbabietole nelle greppie delle stalle. Si ricorda, nel diario, l’episodio della volpe? Che bambino strano. Era bravo a scrivere e a fare i conti. Una sola volta l’ho visto triste: piangeva. Fu quando gli dissi che i tedeschi avevano proibito ai ragazzi ebrei di frequentare le scuole. Lo trovai in un angolo del cortile, appartato. Guardava gli altri giocare, si sentiva solo, lo avevano escluso”. Un bambino ebreo, bravo a scrivere,  in un povero villaggio della campagna polacca, in piena guerra, in quegli anni durissimi, è un bambino “strano”, che fa “osservazioni strane”.

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