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letteratura italiana

Guido Morselli, “Dissipatio H.G.”

GUIDO MORSELLI – Dissipatio H.G. – Adelphi

Dissipatio H. G.“Sono andato a prenderla, la mia ragazza dall’occhio nero, mi sono ridisteso sul letto con lei. Ho premuto la bocca sulla sua, a lungo. L’ho sollecitata col dito, una prima volta. Non abbastanza a fondo. E una seconda volta, sempre con la bocca sulla sua. Non la terza, perché d’un tratto l’ombra mi ha avvolto. E la quiete”.

E’ con questa immagine così affascinante e variamente allusiva, oltre che squisitamente letteraria, che gioca con una pluralità di significati, mescolando e confondendo vita e morte, amplesso ed autodistruzione, che Morselli cattura, per sempre, l’attenzione e in un certo senso l’affezione del lettore, imprigionato tra le pagine di un libro che brilla, nella assurdità attraente dell’invenzione apocalittica che lo sostiene, di una lucidità intellettuale cristallina, consequenziale e inconfutabile. Si potrebbe anche aggiungere giocosa, se la consapevolezza dell’atto di autoannientamento con cui l’autore porrà termine alla sua vita non costringesse a scorgere tutta la gravità di cui è depositaria la “ragazza dall’occhio nero” nel momento in cui, fuoriuscita dal giardino della letteratura, mostra il suo volto reale.

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letteratura messicana

Juan Rulfo, “Pedro Páramo”

JUAN RULFO – Pedro Páramo – Einaudi

pedro paramo copertina“Questo paese è pieno di echi. Sembra quasi che siano rinchiusi nei vuoti delle pareti o sotto le pietre. Quando cammini ti pare come se calpestassero le tue orme. Senti scricchiolii. Risate. Risate ormai vecchissime, come stanche di ridere. E voci ormai logore dall’uso. Ecco ciò che senti. Penso che arriverà un giorno in cui tutti questi rumori si spegneranno”.

Ci sono libri nei quali la letteratura sembra dispiegare tutte le sue potenzialità suadenti e immaginifiche, il suo potere di orchestrare e amplificare l’intensità emotiva – di rendersi insomma un’eco di tutto ciò che è indispensabile alla vita dello spirito che silenziosa ci accompagna – soffermandosi e sostando nell’incerto mondo dei morti, eleggendolo a proprio ambiente naturale, ben al di là della frenetica, vociante e provvisoria vita. Nella dimensione, anch’essa non ancora definitiva in cui, si suppone, si spera, o solo si fantastica, le ombre ancora si attardano a scrutare la vita, a serbarne il ricordo, trattenendone ancora per poco passioni e dolori, e i vivi, con le loro povere forze si lasciano coinvolgere dall’intuizione spesso spaventosa ma anche suggestiva che chi ha vissuto continui in qualche modo ad esistere, ad imprimere la propria impronta unica ed irripetibile sui luoghi che l’hanno visto esaltarsi nell’amore, soccombere al dolore e disperarsi nella desolazione.

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letteratura italiana

Maurizio Salabelle, “Il maestro Atomi”

MAURIZIO SALABELLE – Il maestro Atomi – COMIX

atomi“Ai piedi aveva le sue solite pantofole dalla stoffa a strisce nere e marroni, ma tutte inzuppate d’acqua fredda e con le suole di plastica senza più adesivo. Sulla punta di una delle ciabatte si era formata della schiuma che sibilava producendo delle grosse bolle. Nella mano destra, che teneva sospesa elegantemente, stringeva una copia del giornale che comprava ogni giorno sotto casa nostra”.

Bastano poche righe per ritrovarsi nel mondo bislacco di Salabelle, poche righe scelte assolutamente a caso da una delle sue pagine. E’ un mondo rifinito e in sé concluso, comprensibile a chi accetta di rivestirsi dei suoi stessi colori – comprensibile ed addirittura accattivante – ma i colori sono quelli dello sbigottimento costante, candido, ingenuo e accomodante, della pacifica e rassegnata accettazione delle infinite occasioni di disgusto che si celano nella quotidianità e della disponibilità assoluta all’azione, convinta ed energica, anche se l’azione ubbidisce ad una necessità incomprensibile, se prevede un dispendio di tempo e di energie eccessivo, soprattutto se rapportato alla completa insensatezza del risultato che si propone di ottenere. Si può fare l’abitudine al senso di straniamento fino al punto di entrare nella logica della illogicità e della più gratuita stramberia? E si può convivere con il disgusto fino al punto di avvertire, ben nascosto sotto i rivoltanti aspetti del reale che lo alimentano, una infinita tenerezza per la povera umanità afflitta dal bisogno, da ogni genere di quotidiano, elementare e persino banale bisogno? Deve essere possibile perché è ciò che avviene se ci si inoltra nella produzione di questo splendido e “ovviamente” quasi dimenticato scrittore italiano. All’interno della quale, in un modo tutto speciale, “Il maestro Atomi” costituisce una sorta di romanzo di formazione, o meglio una raccolta di racconti di formazione che rendono conto di alcuni episodi rivelatori dello stravagante apprendistato a cui l’alunno Attriti Luigi, quasi suo malgrado, è costretto a sottostare insieme ai suoi compagni, frequentando le lezioni di una scuola a dir poco bizzarra.

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letteratura uruguaiana

Juan Carlos Onetti, “Il cantiere”

JUAN CARLOS ONETTI – Il cantiere – SUR

“- Che buco immondo – sputò fuori Larsen; poi scoppiò in un’unica risata, solo tra le quattro lingue di terra che formavano un incrocio, grasso, piccolo e senza meta, curvo contro gli anni che aveva vissuto a Santa Maria, contro il suo ritorno, contro le nuvole basse e compatte, contro la sfortuna”.

E’ qui che si compie il destino di Larsen e che termina l’esistenza letteraria del Raccattacadaveri, qui, in un ritorno e nella vaga ipotesi di un nuovo inizio; ma il tempo della fine è un tempo lungo, è il tempo che resta e che va riempito nell’esercizio di “vendette senza importanza”, di “sensualità senza vigore” e di “un dominio narcisista e distratto”. E’ il tempo che occorre ad Onetti per rendere Larsen l’eroe della sua personale leggenda, che di decadenza si nutre e che la decadenza affronta, accettando una sfida già persa in partenza, alla ricerca di un evento definitivo che nulla ha a che fare con il riscatto o con il prestigio sociale, ma che è legato al senso, al senso da dare agli anni affinchè, per quanto possibile, non siano irrimediabilmente morti.

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letteratura italiana

Angelo Maria Ripellino, “Il trucco e l’anima. I maestri della regia nel teatro russo del Novecento”

ANGELO MARIA RIPELLINO – Il trucco e l’anima. I maestri della regia nel teatro russo del Novecento – Einaudi

il trucco e l'anima“Ogni spettacolo è un castello di sabbia, un’effimera cattedrale che, col passare degli anni, perde i contorni, tremola, si assottiglia nell’acqua della memoria. Ripensando ai maestosi edifici-spettacoli costruiti da grandi registi, vien voglia di chiedere, come nelle danze macabre del Barocco: dove sei, Mejerchòl’d? dove sei, Stanislavskij? Che resta, se non uno stridulo “cliquetis” di parole? Restano scheletri di partiture, stinte fotografie, lingue ingiallite di ritagli, e testimonianze (non sempre attendibili)”.

Si stenta a credere che un libro simile possa essere stato scritto, perché quello che si propone di fare – e che in effetti fa – sembrerebbe un compito impossibile: richiamare in vita fantasmi dimenticati, ridare loro spessore e visibilità per metterli a disposizione della conoscenza e della ammirazione delle presenti e future generazioni. Un libro simile richiede l’opera di uno studioso competente, capace di andare a scovare le fonti più adatte, ma anche appassionato, in qualche modo in sintonia quanto a intelligenza e sensibilità con il suo oggetto di studio e, non ultimo, dotato di uno stile che sappia trasformare il saggio in opera letteraria. Insomma questo libro è l’esito felice di un incontro perfetto. Ripellino si propone di indagare, anzi di riesumare, l’essenza del teatro russo dei primi trent’anni del Novecento, cioè di una stagione felice, “epoca d’oro dell’arte del mettere in scena”, accettando di affrontare l’arduo compito di dare conto dell’effimero, di ciò che, frutto di cultura, creatività e ingegno, è però destinato a durare per un tempo limitato e circoscritto dal numero delle rappresentazioni, e per quello aleatorio, legato alla memoria degli spettatori e per questo destinato a ridursi fatalmente.

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letteratura austriaca

Thomas Bernhard, “Sotto il ferro della luna”

THOMAS BERNHARD – Sotto il ferro della luna – Crocetti

Traduzione di Samir Thabet

sotto il ferro della luna

“Dietro il bosco nero/ brucio questo fuoco della mia anima/ in cui tremola il fiato delle città/ e il merlo della paura./ A mani nude abbatto queste fiamme/ che all’aria montano sino al cervello/ e che tremano nel mio nome./ Come una nuvola il mio cuore migra/ sui tetti/ vicino ai fiumi/ finché io, una tarda pioggia, ritorno/ nel profondo autunno”.

Luigi Reitani, nel saggio “L’arte dell’Ars moriendi”, che appare in postfazione alla sua traduzione della raccolta “In hora mortis”, edita da SE nel 2002, fornisce le informazioni necessarie per inquadrare la produzione poetica di Bernhard: cinque volumi di versi – “Sulla terra e nell’inferno” (1957), “In hora mortis” (1958), “Sotto il ferro della luna” (1958), “I folli. I forzati” (1962), “Ave Virgilio” (risalente agli stessi anni, ma pubblicato nel 1981) – ai quali si aggiunge una raccolta rimasta in gran parte inedita, comprendente 140 poesie, già pronta per la stampa nel 1960, che avrebbe dovuto avere come titolo “Frost” (Gelo), scelto poi da Bernhard per il suo primo romanzo uscito nel 1963. “Sotto il ferro della luna” è la terza raccolta edita in traduzione italiana (ad opera di Samir Thabet), segue infatti “Ave Virgilio” (Guanda, 1991, tradotta da Anna Maria Carpi) e “In hora mortis” (SE, 2002, tradotta da Luigi Reitani). Si tratta di una produzione non indifferente quanto a mole, tutta risalente agli anni giovanili dell’autore che, dopo la pubblicazione di “Gelo”, nel 1963, non ritornerà più al genere della lirica, ma si dedicherà esclusivamente alla prosa e alla scrittura teatrale. E’ una curiosa, ma anche significativa coincidenza, il fatto che, esattamente negli stessi anni, anche Ingeborg Bachmann, altra voce d’eccellenza della letteratura austriaca del secondo Novecento, abbia compiuto la stessa scelta.

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letteratura italiana

Maurizio Salabelle, “La famiglia che perse tempo”

MAURIZIO SALABELLE – La famiglia che perse tempo – Quodlibet

copertina_salabelle_b“Abbiamo solo cambiato casa trasferendoci dirimpetto, – sentenziò durante una cena nella quale eravamo tutti annoiati – eppure, come se si fosse verificato un rivolgimento tellurico, vediamo tutto secondo un altro punto di vista. Ciò dovrebbe indurci a riflettere, farci rendere conto dell’assoluta relatività di ogni visione del mondo”.

Con questo romanzo vede la luce la creatura letteraria di Salabelle, un essere talmente disarmato e disarmante da suscitare fin da subito una disperata affezione nel lettore che, pagina dopo pagina, si ritrova in bilico tra lo sconcerto per la sua inconcludente inettitudine, la risata per la irresistibile comicità delle situazioni che lo vedono coinvolto e l’irrimediabile pena, con tanto di stretta al cuore, per quella sua esibita incapacità di districarsi tra le inezie del quotidiano, per quello stupito candore con cui osserva il mondo. E considerando quel suo essere uno zero, uno zero spaccato, una nullità, come non pensare agli antieroi di Robert Walser, all’aria delle “regioni inferiori” che essi respirano, alla dismissione, alla resa, al loro chiamarsi fuori dalla lotta per la sopravvivenza, per il riconoscimento sociale, l’apprezzamento, il prestigio, per la realizzazione di sé; come non avvertire l’impressione liberatoria di una atmosfera straniante e allucinata, ma appena di un passo fuori dalla mischia, di una dimensione insomma insieme vagamente familiare e del tutto inedita e stupefacente?

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letteratura tedesca

Martin Walser, “Dopo l’intervallo”

MARTIN WALSER – Dopo l’intervallo – Feltrinelli

walser“… questa è la vita umana; nessuno ha voglia di alzarsi in piedi e di attendere in posizione eretta il prossimo lampo distruttore di un dio o del nulla. Dovrebbero darci un altro tipo di educazione, dovrebbe venire uno che non fosse asservito alle nostre barbare comodità, […] uno che sapesse semplicemente gridare tutto quello che sa, anche ai bambini in fasce, per impedire loro di abituarsi. Quanto a noi, siamo già venduti”.

Martin Walser è un narratore estremamente loquace; alla sua loquela inarrestabile bisogna rassegnarsi, bisogna arrendersi al flusso continuo delle sue parole e lasciarsi trasportare con la consapevolezza che il viaggio sarà molto lungo e non sempre esaltante. Spesso avaro di attrattive, a volte decisamente ridondante, a volte tagliente e ironico, sempre debordante, Walser può respingere oppure ipnotizzare. Almeno in questo romanzo e nel suo seguito, “L’unicorno”, perché a detta di Italo Alighiero Chiusano (“Coppie incrociate”, in “Literatur. Scrittori e libri tedeschi”) sembra aver dato il meglio di sé in un romanzo successivo, “Un cavallo in fuga”, riuscendo ad essere “nitido fino all’intrepidezza” e rinunciando a quelle “nebbiosità criptografiche” che aleggiano nelle pagine dei suoi primi romanzi di più ampio respiro, ma anche di più evidente ambizione. Così come appare asciutto e misurato, un congegno perfettamente funzionante, privo di sbavature e divagazioni, lo stile di Walser nei suoi primi racconti, almeno a giudicare dalla lettura de “Il ritorno di un collezionista”, contenuto in traduzione italiana nella raccolta “Il Dissenso. 19 nuovi scrittori tedeschi presentati da Hans Bender”, dove il tema è quello del ritorno alla vita precedente dopo la fine della guerra, tema delicatissimo, pregno di suggestioni, pericolosamente connaturato a ferite profonde e insanabili, evocatore per sua natura di ciò che attiene alla sfera del sentimento, che Walser sceglie di trattare con delicata e affettuosa ironia, raccontando le vicende di uno strampalato personaggio e della sua commovente passione per le piume degli uccelli, vicende che assurgono a simbolo di una possibile e ritrovata socialità.

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letteratura tedesca

Hans Erich Nossack, “La fine. Amburgo 1943”

HANS ERICH NOSSACK – La fine. Amburgo 1943 – il Mulino

“Mi sento incaricato di darne conto. Non chiedetemi perché ne parlo, con presunzione, come di una sorta di mandato: non so rispondere. Ho la sensazione che la bocca mi resterebbe serrata per sempre se prima non portassi a termine questo incarico. E sento anche l’urgenza di farlo sin d’ora. Sono trascorsi appena tre mesi, ma poiché la ragione non riuscirà mai a comprendere ciò che è accaduto in termini di realtà, né a conservarlo nella memoria, temo che tutto possa pian piano svanire come un brutto sogno”.

E’ merito di Sebald – uno dei tanti meriti di Sebald – aver fatto riemergere dall’oblio le pagine autobiografiche di Nossack sul bombardamento di Amburgo, pubblicate per la prima volta nel 1948, presentandole, insieme a “L’angelo tacque” di Heinrich Boll, all’interno delle sue lezioni di poetica, tenute nel 1997 a Zurigo e utilizzate successivamente per la realizzazione della sua bellissima “Storia naturale della distruzione. Guerra aerea e letteratura”. L’intento di Sebald, affermato nella Premessa al volume, è quello di avviare una riflessione intorno alle motivazioni per cui quasi nessuno scrittore tedesco ha raccontato in modo esteso nelle sue opere la devastazione che si è abbattuta sulle città della sua nazione negli ultimi anni della II guerra mondiale, le motivazioni per cui “l’esperienza di un’umiliazione nazionale senza precedenti, vissuta da milioni di persone […] non abbia mai trovato modo di esprimersi a parole”, di riflettere sul fatto che non sia stato ancora scritto “il grande romanzo epico tedesco sulla guerra e sul dopoguerra”. Come se la cultura tedesca fosse rimasta vittima di una amnesia collettiva, oppure di una sorta di meccanismo di rimozione, così che “le immagini di un capitolo tanto terribile della nostra storia” – afferma Sebald – “non hanno mai varcato, in fondo, la soglia della coscienza”.

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letteratura tedesca

Hans Erich Nossack, “Spirale. Romanzo di una notte insonne”

HANS ERICH NOSSACK – Spirale. Romanzo di una notte insonne – Feltrinelli

“Ho un’invincibile ripugnanza per la story… Quando un sasso cade nell’acqua mi affascinano gli anelli che si formano, non soltanto sulla superficie, ma anche sotto, e anche nell’aria che la sovrasta. Anelli che non cessano mai di riprodursi, anche quando il fatto è da tempo dimenticato”.

E’ questa dichiarazione di Nossack – riportata da Hans Bender nel suo saggio “La prosa tedesca dopo il ‘45”, che introduce la raccolta “19 nuovi scrittori tedeschi”, edita da Feltrinelli nel lontano 1962 – la chiave che rende più agevole l’accesso ad un’opera che già a partire dal titolo dichiara il suo essere sui generis per quanto attiene alla tipologia testuale, alla concatenazione degli eventi e alla loro collocazione temporale. A ben vedere, forse, il romanzo a cui Nossack allude nel titolo è tutto racchiuso, e concluso, nella sua breve prefazione al testo, perché qui – e solo qui – egli fa riferimento ad un evento, peraltro vago, che ha reso l’uomo, protagonista dell’opera e voce dominante di ogni sua parte, insonne. Sono sempre queste brevi righe a tratteggiare la cornice notturna, ad alludere ad una lotta per la conquista del sonno e a suggerire, infine, la reale portata simbolica di quella spirale che etichetta e insieme interpreta tutte le pagine che racchiude. “Tuttavia, ogni volta che la spirale dei suoi pensieri sta per avvolgersi nel sonno, urta contro nuovi detriti della sua vita e, di nuovo, risale nella luce spietata e ambigua dell’insonnia”. La spirale, dunque, è la traiettoria lungo la quale si snoda il pensiero del protagonista, potentemente onnipresente nelle pagine del romanzo, un pensiero che “si giudica, si assolve, si difende e cerca di concedere a se stesso la grazia per trovare, finalmente, la pace”. Nossack si cimenta in una prosa speculativa che appare decisamente parca nel concedersi alla “story”, o meglio, che lascia al lettore il compito di andare a ritrovare nel testo le tracce – che pure esistono – dello svolgimento romanzesco, ed è invece accuratissima, volutamente insistente e quasi ridondante, nel riprodurre un’altra trama, più sottile e sfuggente, fatta di allusioni e suggerimenti, labile, inafferrabile, ma totalmente libera dall’assoggettamento a regole e leggi esterne a se stessa, la trama in cui l’io, a diversi gradi e momenti di consapevolezza, è costantemente immerso e in cui spesso è costretto, vanamente, a dibattersi.

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