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letteratura austriaca

Ingeborg Bachmann, “Il buon Dio di Manhattan”

INGEBORG BACHMANN – Il buon Dio di Manhattan – Adelphi

“A questo mondo il tempo è poco. E quando tutto sarà scoperto e tradotto in formule, io ancora non avrò capito lo smalto dei tuoi occhi cangianti e la bionda steppa di peluria sulla tua pelle. Quando tutto sarà conosciuto, creato e ridistrutto, io mi perderò ancora nel labirinto dei tuoi sguardi. E il singhiozzo che sale per la via del tuo respiro mi sgomenterà come nulla al mondo”.

La giovane Ingeborg dei radiodrammi è già connotata, marchiata e illuminata da quella “follia dell’assoluto” che Hans Holler sceglie come titolo del suo libro biografico a lei dedicato, individuandola come chiave di lettura o formula esplicativa in grado di schiudere, per quanto possibile, le vie segrete di una esistenza, di donna e di poetessa. La follia dell’assoluto che discende con implacabile coerenza dal “coraggio di essere”, quel coraggio che, secondo Aldo Gargani – che così ha intitolato un suo saggio sulla cultura mitteleuropea e la sua introduzione ai “Diari segreti” di Ludwig Wittgenstein – è segno distintivo della fiorente stagione letteraria austriaca che ha visto formarsi ed evolversi, attraverso la spietatezza verso se stessi e l’inesausto lavoro sul linguaggio, avvertito come radicale esigenza etica, l’intera opera di Thomas Bernhard e di Ingeborg Bachmann. Follia e coraggio sono il controcanto silenzioso dei versi della Bachmann, forse il segreto del loro discanto; follia, coraggio e bruciante amore per l’assoluto che la pongono fuori dai giochi consueti delle anime salve, fuori dai compromessi, predestinata fin da subito a vivere nella continua ricerca – “di frasi vere”, direbbe lei – affetta da una sorta di disperazione linguistica, tormentata dall’urgenza di smascherare inganni, tradimenti e mistificazioni, ma anche illuminata, esaltata – e quindi esaltante – nella sua fedeltà a quella miracolosa utopia che è la letteratura, quando, anche per poco, arriva a sfiorare l’indicibile.

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letteratura americana

Henry James, “Il carteggio Aspern e altri racconti italiani”

HENRY JAMES – Il carteggio Aspern e altri racconti italiani – Garzanti

Il carteggio Aspern“Guarda come la città si ammanta di luci coll’avanzare dell’estate; come il cielo e il mare e l’aria rosata e il marmo dei palazzi mandano bagliori fondendosi insieme”.

Quanto si addice il genius loci veneziano alla scrittura di James che in questo racconto perfetto si dipana tra gli spettri luminosi del passato e la loro eco tenace sopravvissuta al tempo presente, ma celata a difesa del suo geloso disfacimento. Venezia che accarezza, attutisce, rallenta e dilaziona, splendida e misteriosa, teatro perfetto di una vicenda intessuta sul ricordo, sul sogno, forse sull’illusione, sicuramente sulla passione, sui suoi vari accenti e riverberi, perché essa stessa è un teatro, l’immensa quinta di un teatro sul quale i vivi e le ombre di chi un tempo è stato vivo condividono la stessa affascinante bellezza. E’ il genius loci veneziano che accoglie una vicenda curiosa, strana, vagamente puriginosa, la accosta alle infinite storie che hanno animato le stanze nascoste dietro le preziose facciate dei palazzi, nobilitati dai merletti di pietra e involgariti dalla muffa che ne mina le fondamenta, e a loro la accomuna, ammantandola di mistero. E il mistero impreziosisce il destino degli uomini, lo salva dalla banalità e dall’inconsistenza, lo rende unico e inimitabile; il mistero rende vivo in eterno persino ciò che per sua natura è transitorio e fortuito e forse perciò tanto ambito: la bellezza e l’amore.

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letteratura ungherese

Laszlo Krasznahorkai, “Melancolia della resistenza”

LASZLO KRASZNAHORKAI – Melancolia della resistenza – Zandonai

“Aveva visto miliardi di cose inquiete, pronte al cambiamento continuo, aveva visto come dialogavano tra loro severamente senza capo né coda, ognuna per conto proprio; miliardi di relazioni, miliardi di storie, miliardi, ma si riducevano continuamente a una sola, che conteneva tutte le altre: la lotta tra ciò che resiste e ciò che tenta di sconfiggere la resistenza”.

Il romanzo di Laszlo Krasznahorkai possiede uno stupefacente e inconfondibile sapore epico; trasporta il lettore e lo trattiene in un luogo e in un tempo circoscritti e residuali, colti sul limitare di una inquietante apocalisse annunciata, che percorre con lentezza, un passo dopo l’altro nella loro desolazione sempre più minacciosa, facendoli nel contempo assurgere a metafora – una ricca e a suo modo ammaliante metafora – della mancanza di senso, della strenua resistenza alla mancanza di senso e della straordinaria poesia di cui la resistenza – melanconica perché consapevole della inevitabile sconfitta che la attende – si tinge, si colora e si abbellisce per il tempo, pur breve, della sua durata.

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letteratura italiana

Antonio Moresco, “La lucina”

Antonio Moresco – La lucina – Mondadori

“E io qui, seduto su questa seggiola di ferro che sprofonda sempre più nel terreno, in questo posto fuori dal mondo, a una simile distanza da tutto e dallo spazio e dal tempo e dalla mia vita e dalla mia morte…”

Potrei facilmente definire questo libro di Moresco commovente, ma la pura e semplice commozione è solo un effetto epidermico che non rende tutto il merito che è dovuto a questa splendida scrittura, disadorna, arresa e feconda. A che cosa parla, che cosa sommuove questa breve e intensa narrazione? Quali profondi pertugi nascosti, negati o volutamente dimenticati illumina questa lucina, lontana ma ben visibile e persistente? Quello che smuove e tiene avvinto a sé, costringendo il lettore a procedere in una sorta di dolorosa fascinazione, non ha a che fare con il cuore, così pronto a battere in sintonia con tutto ciò che lo sollecita, ma così altrettanto pronto a dimenticare per inseguire altri e più soddisfacenti stimoli. La narrazione di Moresco – questo a me appare come uno dei suoi segni distintivi – attraversa i sentimenti in profondità, li presuppone, come un accessorio non evitabile dell’esistenza, riserva loro uno sguardo affettuoso e persino grato, lo sguardo di un saggio, forse di un asceta, ma li abbandona in superficie in questo suo viaggio che punta diretto al senso profondo delle cose, o meglio alla domanda testarda sull’inesistente senso delle cose. Le cose ultime, quindi la vita e la sua fine.

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letteratura austriaca

Franz Innerhofer, “Bei tempi”

FRANZ INNERHOFER – Bei tempi – Feltrinelli

“Dietro i volti più sereni c’erano spesso i più cupi nascondigli, della cui esistenza non erano al corrente neppure i diretti interessati. Se l’uno era dominato per tutta la vita da una pietà tale che non alzava neppure il pugno dietro a una mucca, l’altro, alla minima occasione, era capace di ammazzare un bambino con l’assicella di uno steccato. […] Mentre gli uni affogavano timidi nell’acqua o si impiccavano, gli altri si aggiravano fieri per l’aperta campagna ad escogitare nuove oscurità”.

Questo libro sa di fango, sporcizia, gelo, aria torrida, fatica disumana, crudeltà insensata e muta disperazione. Eppure parla e ha una voce cruda come la terra da cui è nato, che esige sacrifici per concedere i suoi frutti, come in un rito pagano. Questo libro attira e respinge ad ogni pagina, perché costringe il lettore a camminare, girando a vuoto nell’aria aperta di un paesaggio svelato, sottratto alla sua apparente amenità, le cui valli, colline, alpeggi e pendici verdeggianti sono in realtà le pareti di un carcere che non lasciano intravedere alcuna via di uscita. Franz Innerhofer ha usato la letteratura per dare voce al “muto tormento” di una “sporca, lurida esistenza” e le sue pagine, che sembrano scritte di getto, che si prestano ad essere lette di getto, come un unico e non riproponibile momento di svelamento – perché forse non si può tornare ulteriormente a questa sensazione di “assoluta mancanza di scampo” – sono l’epopea di un mondo contadino sfrondato da ogni romanzesca e leggendaria aura bucolica e illuminato dall’interno, fin negli angoli più minuti della sua disumana grettezza ed insopportabilità. La scrittura di Innerhofer non conosce filtri, maschere, orpelli, si sostiene senza aiuti, senza ricorrere ad artifici retorici, si sostiene, sembrerebbe, per il greve peso delle parole e delle frasi che devono percorrere il greve mondo che le ha generate, attraverso il susseguirsi delle lente stagioni, ognuna con il suo carico di solitudine, di sfruttamento e di assoluta aridità emotiva.

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letteratura austriaca

Heimito von Doderer, “Le finestre illuminate”

HEIMITO VON DODERER – Le finestre illuminate – Einaudi

“Il firmamento terreno di ciascuno è pieno di stelle inferme, che ammiccano e palpitano come quelle celesti; diverse, da migliaia di finestre, per migliaia di occhi solitari e certo perfettamente adatte ad ognuno. Chi va alla finestra, come qui il nostro consigliere, va sotto la propria costellazione; e certo bisognerebbe interpretare questo lontano e fervido appello della tenebra, se ne fossimo capaci.”

Indispensabile il sottotitolo, “Come il consigliere Julius Zihal divenne uomo”, che von Doderer lascia cadere sotto le sue finestre illuminate con tutta la grazia un po’ aristocratica, la sorridente ironia, la benevola arguzia dello scrittore di razza che tiene saldamente il controllo della sua materia narrativa, che la guida, la sprona o la contiene nel difficile compito di rendere conto al lettore di quel delicato e sempre un po’ misterioso avvenimento che è una metamorfosi. Perché di questo tratta il romanzo, del processo mediante il quale il consigliere Julius Zihal, da perfetto e irreprensibile burocrate si trasforma in un uomo, e cioè, contrariamente a ciò che avviene in natura, dove la metamorfosi si compie come progressivo perfezionamento, si degrada e cade dall’empireo astratto della sicurezza, della completezza e della perfezione per ritrovarsi parte di quel caos in cui si dibatte, per fortuna a volte felicemente, l’imperfetta umanità.

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letteratura uruguaiana

Juan Carlos Onetti, “Gli addii”

JUAN CARLOS ONETTI – Gli addii – SUR

“Quasi senza respirare, guardai la ragazza che chinava il viso sull’insieme inopportuno, furiosamente orizzontale, di scarpe, pantaloni e lenzuola. Rimase immobile, senza lacrime, accigliata, tardando a comprendere quello che io avevo scoperto vari mesi prima, la prima volta che l’uomo era entrato nel mio negozio – non aveva altro che questo e non volle condividerlo – decorosa, eterna, invincibile, mentre si preparava già, senza saperlo, a qualsiasi altra notte futura e violenta”.

Come si può percorrere il territorio dell’addio, come farlo assurgere a tema, dotarlo di svolgimento e variazioni, indulgere a soppesare ogni suo estremo passo, sia pure incerto o inconcludente, lungo la strada che conduce verso il suo compimento? Onetti lo fa costruendo, ma sarebbe meglio dire creando, l’affabulazione dell’addio, anzi degli addii, perché in queste pagine quello che si celebra – proprio come in una lenta e soffusa e raccolta cerimonia – è il distacco, da sé, dalla vita, dal passato, dai ricordi, dagli affetti, ma anche dall’infinito e ricorrente trascolorare delle luci e delle stagioni di un mondo che si va spegnendo insieme agli occhi di chi, consapevole, lo osserva. Quasi che affabulare sia l’ultima occasione concessa per sostare, ancora un po’, sul limitare, quasi che costruire una trama, rifinirne o camuffarne i meccanismi, sia un modo per prendersi beffe del tempo, segnato, e del destino, indifferente.

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letteratura polacca

Witold Gombrowicz, “Ferdydurke”

WITOLD GOMBROWICZ – Ferdydurke – Feltrinelli

“Sarebbe pure opportuno stabilire, decretare e determinare se si tratti di un romanzo, di un diario, di una parodia, di un pamphlet, di una variazione su un tema fantastico, di un saggio… se vi prevalgono lo scherzo e l’ironia oppure i significati profondi, il sarcasmo, la caricatura, l’invettiva, l’assurdo, il puro nonsense, il puro divertissement… o se per caso non si tratti invece di una posa, di una mistificazione, di una guittata, di un artificio, di un’insufficienza di umorismo, di un’anemia del sentimento, di un’atrofia dell’immaginazione, di un attentato all’ordine e di una débacle della ragione”. (da “Premessa a Filibert foderato d’infanzia”, cap. XI)

“Ferdydurke” è un libro pericoloso, o meglio è il libro con il quale il bisturi che Gombrowicz impugna si manifesta per quello che è, e cioè un’arma intenzionata ad incidere, rovesciare e mettere a nudo ciò che maggiormente è deputato a definre, a rendere visibile e quindi, in ultima istanza, a creare, qualsiasi opera d’arte, ma anche qualsiasi essere umano, in qualsiasi situazione esso si trovi a vivere: la forma. Ingannato da un incipit clamoroso, perfetto nel suo distendersi e dipanarsi, profondamente poetico nel suo decantare il senso di vuoto interiore di un soggetto – ed io narrante – evidentemente in grado di condurre ad esiti letterariamente promettenti la sua capacità di autoanalisi, il lettore si accorge ben presto dell’inconsistenza di ogni sua aspettativa e prova quello sconcerto che ben conosce e che ha imparato ad individuare come uno dei primi vaghi sentori premonitori del valore artistico, sconcerto per la mancanza di punti di riferimento e di pietre di paragone di fronte a ciò che gli appare come assolutamente unico.

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letteratura austriaca

Ludwig Wittgenstein, “Diari segreti”

LUDWIG WITTGENSTEIN – Diari segreti – Laterza

“Si potrebbe fissare il prezzo dei pensieri. Alcuni costano molto, altri poco. E con che cosa si pagano i pensieri? Io credo così: con il coraggio” (Ludwig Wittgenstein)

Per chi ama la letteratura austriaca del Novecento, imbattersi nei “Diari segreti” di Ludwig Wittgenstein nella ormai quasi introvabile edizione Laterza è una vera fortuna, soprattutto per chi, come me, non sia sufficientemente attrezzato per affronatre la lettura del “Tractatus logico-philosophicus” in modo consapevole e, soprattutto, utile alla comprensione della sua influenza sulla cultura mitteleuropea del secolo scorso e sulle peculiarità delle forme artistiche di un tempo – e di un luogo – così tormentato, ma così fervido, terreno di incubazione di intense voci poetiche e di una grandissima prosa, di una letteratura che fiorisce comunque sul limitare del dire filosofico. Una fortuna perché gli scritti privati del filosofo non sono separati dalla sua speculazione ma, anzi, in un certo senso nascondono il seme da cui essa si genera; perché il volume è curato in modo generoso e attento da Fabrizio Funtò che lo arricchisce di utilissimi apparati e note e, infine, perché è introdotto da un lungo saggio di Aldo Gargani, dal titolo “Il coraggio di essere”, un libro nel libro, una guida che conduce il lettore, passo dopo passo, non solo all’interno dei “Diari segreti”, ma anche – e soprattutto – all’interno del pensiero di Wittgenstein, ad individuare le spinte generatrici del suo lavoro intellettuale. Un saggio che, nella mia esperienza di lettrice, si colloca, come un anello all’interno di una stessa catena, a fianco delle altre opere che Gargani dedica a due delle pietre miliari del Novecento letterario austriaco: “La frase infinita: Thomas Bernhard e la cultura austriaca” e “Il pensiero raccontato. Saggio su Ingeborg Bachmann”. Una letteratura che è esigenza etica della verità – o almeno “scoperta del contenuto di verità della menzogna”, come afferma lo stesso Bernhard – ma che, nel suo dispiegarsi, nel suo distendersi e fiorire, costruisce trame avvincenti mediante un pensiero che non è asservito ai fatti, ma che li disarticola e ricompone all’infinito; una poesia che è “ricerca di frasi vere”, per usare un’espressione cara alla Bachmann, e quindi, per se stessa, utopica, perché unisce all’acutezza dell’esigenza etica della verità la nostalgia di una parola che sosta ai limiti dell’indicibile, di ciò che non può essere detto ed esplicitato. Una letteratura costituita da esercizi di pensiero e di linguaggio, esattamente come di esercizi di pensiero e di linguaggio è fatta la speculazione filosofica di Wittgenstein.

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letteratura austriaca

Ingeborg Bachmann, “Tre sentieri per il lago”

INGEBORG BACHMANN – Tre sentieri per il lago – Adelphi

“Ho scoperto di non appartenere più a nessun paese, non ho più nostalgia di nessun posto, una volta era diverso, una volta credevo di avere un cuore e di appartenere all’Austria. Ma tutto passa prima o poi, il cuore vien meno e una certa mentalità va perduta, solo che sento in me qualcosa che sanguina, e non so cos’è”.

Così afferma Franz Joseph Eugen Trotta, il grande amore doppiamente perduto, nei pensieri di Elisabeth, la protagonista del racconto che dà il titolo alla raccolta, colui che, “uomo esiliato e perduto”, le aveva fatto sentire che “l’estraneità era il suo destino”. Così pensa Elisabeth, così scrive Inge in questo racconto che, ricchissimo, disturbante ed estremamente raffinato, conclude quella parte della sua produzione che l’autrice volutamente destina alla pubblicazione, e suona come un addio, la chiusura di un cerchio, un ritorno all’origine per estinguerla definitivamente. La raccolta esce nel 1972, l’anno dopo la Bachmann morirà tragicamente a Roma.