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letteratura italiana

Mario Giacomelli, “La figura nera aspetta il bianco”

MARIO GIACOMELLI – La figura nera aspetta il bianco – contrasto

giacomelli-figura-nera“Il nero e il bianco, quasi una scrittura leggibile, distruggono in parte il realismo che la fotografia potrebbe avere. Nelle mie immagini non c’è niente di astratto, ma solo l’essenziale”.

Il bianco abbaglia e il nero ferisce, sempre, in ognuna di queste bellissime foto. Perché Giacomelli è drammatico ed eccessivo, invadente e impietoso. Affronta di petto il suo soggetto, affonda nel suo soggetto, lo apre come se lo squartasse per giungere nei suoi anfratti e catturarne l’anima. La figura nera aspetta il bianco perché il bianco sommuove e sollecita; il bianco aspetta il nero per incarnarsi in una forma ed assaggiare la vita. In entrambi i casi l’effetto è drammatico, ma di una sorta di dramma malinconico, che non assomiglia ad un urlo, ma ad una canzone triste, conosciuta fin troppo bene. Forse perché gli artisti usano lo tristezza e il dolore per consolare il dolore degli altri.

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letteratura argentina

Antonio Di Benedetto, “L’uomo del silenzio”

ANTONIO DI BENEDETTO – L’uomo del silenzio – BUR

l'uomo del silenzio“Lo sai, l’hai pensato? … La notte fu silenzio. Il silenzio precedette la Creazione. Silenzio era l’increato e noi, i creati, veniamo dal silenzio. Nel ventre materno, avevano accesso i suoni? Non si erano sviluppati ancora i miei organi uditivi, giacché dei suoni non ho traccia né memoria? Dal silenzio veniamo e alla polvere del silenzio torneremo. Qualcuno implora: – Che io possa ritrovare la pace delle antiche notti… – E gli si concede un silenzio vasto, serenissimo, senza confini. (Il prezzo è la vita). Le nostre notti, Nina, mancano di compassione e anima”.

Compassione e anima: questo va cercando l’uomo del silenzio, questo uomo qualunque che, in virtù di una ossessione – ma quanto la Letteratura deve agli ossessionati, quanto è lei stessa una ossessione, quanto di ossessioni si nutre? – vive costantemente lacerato e dunque impossibilitato a dimenticarsi, a lasciarsi fluire, come tutto, come tutti. Un uomo fatto di venticinque anni, che nelle prime pagine del romanzo appare al massimo come un originale, un po’ vacuo e anche un po’ ridicolo, vittima tutt’al più di una fissazione che riempie una personalità non proprio matura ed equilibrata, diventa nelle mani di questo straordinario scrittore argentino l’eroe di una avventura metafisica, alla vana ricerca della vera libertà interiore. Un uomo che non vive bene, si direbbe, perché qualcosa gli impedisce di fare ciò che si è prefissato, un impedimento fastidioso e irritante che gli toglie la pace, ma talmente assillante che sembra addirittura cercato ed evocato, a dispetto di una pace che egli forse inconsciamente vuole tenere ben lontana.

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letteratura italiana

Antonio Moresco, “Gli increati”

ANTONIO MORESCO – Gli increati – Mondadori

gli increati“So solo che avevo percepito che qualcosa era successo, anche se non sapevo cosa, avevo avuto per una frazione d’istante come per una fulminea intersezione di dimensioni e di piani la percezione che ero dentro qualcosa che era successo da qualche parte, succederà… Lo so, lo so che non ci sono le parole per dirlo, ma se non ci sono le parole per dirlo allora vuol dire che c’è qualcosa che si sottrae alla nominazione, alla nominazione e alla creazione e alla distruzione, alle parole vive e alle parole morte e anche alle parole immortali”.

“Gli increati” non rappresenta l’ultimo tassello di una trilogia iniziata con “Gli esordi” e continuata con “Canti del caos”, anche se si avvale, guadagnandone in spessore, profondità percettiva e fascino narrativo, della materia di cui i primi due volumi sono costituiti. “Gli increati” è insieme punto di arrivo e di partenza di una narrazione ciclica che ha un nuovo inizio dove ci si aspetterebbe una conclusione, che termina con un proemio, anzi con tre proemi, chiudendo un cerchio strutturale, che, in realtà, rimane inevitabilmente aperto. Con questo volume, Moresco perfeziona una costruzione narrativa che trova una sua splendida incompiutezza nella ripetizione, nella paziente riproposizione di infinitesimali lacerti di trame, nella turbinosa ricomparsa sulla scena di un’infinita popolazione di comparse, comprimari e protagonisti che, tassello, dopo tassello, contribuiscono alla creazione di una struttura plausibile, alla sua distruzione e al suo annullamento nella increazione.

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letteratura tedesca

Thomas Bernhard, “Il loden”

THOMAS BERNHARD – Il loden – Theoria

Traduzione di Giulia Ferro Milone

“Mi venne in mente che il loden di mio zio aveva sei occhielli, subito conto gli occhielli del loden di Humer, li riconto una seconda volta, li riconto una terza, sempre dall’alto verso il basso e dal basso verso l’alto e penso, anche il loden di Humer ha sei occhielli, sei occhielli ricoperti di pelle di capretto nera, al che penso che si debba trattare del loden dello zio Worringer…”

Il grande stile mi appare spesso legato ad un eccesso, costituito da un eccesso, eccesso di energia, di aggressività tesa, aderente al suo oggetto, oppure, al contrario, eccesso di disadorna rinuncia al possesso, persino a quello delle proprie immagini o parole, quasi nell’intento di sparire e di negarsi, proprio nel momento stesso in cui, dando vita ai propri pensieri, magari sotto voce, ci si impone, comunque e in qualche modo. Il grande stile travalica i confini, abbatte le barriere della consuetudine e dell’accettabile, abita nell’esagerazione pur non avendo alcun intento di stupire, pur non inseguendo a tutti i costi nessun tipo di originalità di facciata, il grande stile è, anche, arte dell’esagerazione, proprio quella tante volte citata da Bernhard, fonte di disturbo e spesso di disagio perché conduce in territori inabitabili, come sarebbe inabitabile l’esistenza privata di qualsiasi parvenza di procedure acquisite. C’è esagerazione e disturbo del pubblico sentire in Walser, che brilla mentre si sottrae e in Bernhard che risplende nella sua prosa ipnotica, che aggredisce, tiene avvinti e trascina con sé nelle volute di un pensiero che non fa che riprodurre se stesso.

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letteratura rumena

Mircea Cărtărescu, “Abbacinante. L’ala sinistra”

MIRCEA CĂRTĂRESCU – Abbacinante. L’ala sinistra – Voland

“La memoria delle mie lacrime ha trent’anni. Non sono sano di mente. La solitudine mi sussurra all’orecchio, insieme disperata e rassicurante, come un tempo gli intestini di mia madre, che sentivo da dentro l’utero. Il gorgoglio di sorgente sotterranea della sua vescica. Ogni tanto c’è un tram che passa o, nelle profondità della notte, un cane randagio che abbaia, o qualcuno che parla forte, e tutti questi rumori ricordano alla mia pelle (poiché, naturalmente, a quell’epoca sentivo con la pelle, come i ragni, quasi fossi stato interamente avvolto nel mio timpano) l’eco lontana della voce di mio padre, in una stanza miserabile in cui non esistevo ancora”.

L’origine: si può ricercarla con inguaribile e malinconica nostalgia, oppure disconoscerla fino al punto di negarla con astio doloroso, per reinventarla. In entrambi i casi la letteratura, quando se ne appropria, possiede un modo tutto suo – ma ogni volta nuovo e ammaliante – di celebrarla, di estinguerla, di trasfigurarla, insomma di approfittare di lei, forse perché essa contiene in nuce quelle storie che i nostri giorni vanno narrando, l’immaginazione e i sogni che confondono e rivelano quel bisogno di consolazione che è la reale ferita dolente dell’animo umano, e infine di riempirla di uno splendore fastoso, rutilante o agghiacciante, o, appunto, abbacinante.

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letteratura italiana

Franco Stelzer, “Matematici nel sole”

FRANCO STELZER – Matematici nel sole – Il Maestrale

matematici nel sole“Tutto sommato – pensa – alla fine noi non siamo che questo. Esseri che fanno di conto, avvolti nel chiarore. Piccoli eroi storditi e luminosi. Matematici nel sole”.

Mi piace Franco Stelzer, tra le altre cose, perché è uno scrittore coraggioso. Bisogna esserlo per scrivere, oggi, di amore e di morte, affondando le mani nella materia oscura che li accomuna. Se riesce a farlo, immagino, è perché possiede una certa dimestichezza con le materie oscure. Mi piace, pur riconoscendone quelle che mi appaiono come imperfezioni o, meglio, riconoscendo nella sua scrittura quei cali di tensione narrativa, quelle soste volute e cercate in territori inoffensivi in cui a volte indulge; ma il mio parere deriva da un gusto letterario maggiormente portato ad una narrazione che nasconda i suoi snodi, che rifugga dalle storie, che prenda spesso le distanze da ciò che può essere esplicito, che richieda insomma una sorta di esercizio di decifrazione da parte del lettore, lo stimoli e lo metta alla prova. Invece Stelzer è un potente accompagnatore, una guida nei boschi narrativi, una guida affascinante che non si può evitare di seguire. Perché questo è un libro che richiede l’abbandono del lettore e anche la sua fiducia, data la materia di cui è costituito che è, sotto i veli, gli infiniti veli che le parole le vanno tessendo intorno, dolorosa e definitiva. La materia di cui è fatto “Matematici nel sole” è la fine, con maggiore precisione, l’approssimarsi della fine della vita, vista nell’ottica della piena consapevolezza.

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letteratura italiana

Gianni Celati, “Narratori delle pianure”

GIANNI CELATI – Narratori delle pianure – Feltrinelli

Narratori delle pianure“Avevano fatto tanta strada venendo da lontano in cerca di qualcosa che non fosse noioso, senza mai trovar niente, e adesso per giunta chissà quanto tempo ancora avrebbero dovuto restare nella nebbia, col freddo e la malinconia, prima di poter tornare a casa dai loro genitori. Allora è venuto loro il sospetto che la vita potesse essere tutta così”.

Hanno il passo lungo di pianura queste pagine, quello che poggia il piede quasi senza attenzione e senza apprensione perché non si aspetta né inciampi né sorprese, il passo di chi alza gli occhi all’orizzonte sapendo già che cosa potrebbe capitargli di trovare, ma sapendo anche che comunque non gli sarà dato di raggiungerlo. La pianura dà forma ad un’anima speculativa e bislacca, forzatamente obbligata a cercare dentro di sé quel riposo che le lontananze esterne gli negano, a inventarsi curiosità e il modo di soddisfarle. Hanno il passo lungo di pianura queste pagine, di quella pianura che è però ormai quasi un ricordo, quella che è ormai solo residuale, ma che ancora resiste, violata forse ma non arresa, perché il grande fiume è il genio sacro che la rigenera. Queste pagine sollecitano allora anche il ricordo di quel passo lungo di pianura e forse per questo possiedono un fascino strano e restio, difficile da cogliere ad una prima distratta occhiata, perché la verità è che a nulla conducono se non al passo stesso con il quale procedono.

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letteratura uruguaiana

Mario Benedetti, “La tregua”

MARIO BENEDETTI – La tregua – nottetempo

la tregua“Poi, all’improvviso, ho avuto coscienza che quel momento, quel frammento di quotidianità, era il grado massimo del benessere, la Felicità. Mai ero stato tanto pienamente felice come in quel momento, tuttavia avevo la dolorosa sensazione che mai più lo sarei stato, almeno con quella forza, con quell’intensità. L’apice è così, esattamente così. Come se non bastasse, sono certo che l’apice duri solo un secondo, un breve istante, la durata di un lampo, e non si ha diritto a proroghe”.

Quello che leggiamo in queste pagine è il diario di un anno, di un lungo e brevissimo anno, un tempo su cui l’amore ha impresso il suo sigillo, che è insieme medaglia e ferita, segno distintivo di straordinaria eccezionalità e dolore che scava nella carne e che rende miracolosamente anche l’anima un organo vivo e corporeo che respira e palpita, soffre e sanguina. Il diario di un ultimo amore, uno di quelli che “più degli altri strazia”, perché “lo va nutrendo crudele il ricordare” e, ancora di più, forse, la lucida consapevolezza della sua irripetibilità, e non ha importanza se questa è meramente legata allo scorrere del tempo, al suo farsi giorno per giorno più breve, o alla semplice convinzione che nella quotidianità l’evento miracoloso, quando è veramente tale, quando sollecita il tempo e agisce come intensificatore di attimi, se accade, è per sua natura unico.

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letteratura ceca

Jachym Topol, “Artisti e animali del circo socialista”

JACHYM TOPOL – Artisti e animali del circo socialista – Einaudi

“E cominciai a bere. Pensai a lungo ai ragazzi della nostra casaCasa, e poi mi resi conto che ero seduto con gli occhi gonfi di pianto su una strada di guerra dove non passava nessuno, circondato dal Bosco dei Mercanti, e che altro non mi rimaneva se non diventare un bandito solitario in una terra di morte che io stesso, con tutte le mie forze, avevo contribuito a nutrire di esseri umani”.

Il titolo, bellissimo, di questo romanzo ceco – profondamente ceco, nelle atmosfere, nel passo, nella visionarietà e nella felice proliferazione di una narrazione che travalica i paletti strutturali e moltiplica gli scenari sotto gli occhi del lettore, disorientandolo e insieme legandolo con una sorta di filo d’Arianna – è dotato di una propria forza attrattiva e funziona egregiamente come indicatore di poeticità. Connota quel tanto di meraviglioso e inconsistente, evanescente e miracoloso, ma anche stranamente triste e malinconico, per la sua natura labile e volatile, nemica del tempo e della ordinaria quotidianità, sradicata da ogni luogo, impossibile da replicare o trattenere, che è indissolubilmente legato all’immaginario circense. E per noi, lettori occidentali, evoca anche l’eccezionalità e l’esoticità, il rigore dell’addestramento, la perfezione nell’esecuzione, la natura quasi filosofica di una mentalità che fa del circo uno stile di vita così affine alla profondità dell’anima slava.

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letteratura italiana

Franco Stelzer, “Ano di volpi argentate”

FRANCO STELZER – Ano di volpi argentate – Einaudi

ano di volpi argentate“Voglio dire questo, che quando ti penso, vedo una distesa di boschi. Voglio dire che, in un punto oscuro di quei boschi, esiste veramente lo sfintere di una volpe. Certo, quel muscolo ha qualcosa di tremante. Esso è una stretta rapida. E’ un pensiero oscuro. Esso si stringe o si allenta, a seconda del caso. Quando la volpe muore, per esempio, lo sfintere si allenta. Ora, quando guardo una distesa di boschi, e quando penso allo sfintere delle volpi, mi vieni in mente tu. Voi due siete un pensiero oscuro. Una rapida stretta. Siete qualcosa di tremante che, dal buio, invia segnali verso l’alto”.

Questa scrittura, il rumore di questa scrittura, l’ansito di questa scrittura, è una stretta rapida e un pensiero oscuro. Questa pagina che l’autore sceglie come introduzione ai suoi scritti e, presumo, come presentazione di sé in quanto scrittore, ha il potere di lavorare nel tempo, senza fretta, perché stupisce e attrae chi conosce l’oscurità e il tremore, il lettore che ad ogni nuova stretta si predispone a quel piacere sottile che è aspettativa ma anche glorioso superamento di ogni aspettativa. La scrittura di Stelzer, si potrebbe definire una prosa poetica, una narrativa contaminata, dall’andamento sinuoso e destrutturato, accenni di trama condotti sul filo dell’intuizione, che chiedono, chiamano la partecipazione del lettore, anzi, in un certo senso, la esigono.