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Romano Bilenchi, “Conservatorio di Santa Teresa”

ROMANO BILENCHI – Conservatorio di Santa Teresa – BUR

“Anche Santa Teresa con i suoi cortili silenziosi sfumava dolcemente nel suo ricordo. Immaginò di essersi definitivamente staccato da tutte le vicende che avevano formato la sua vita fino ad allora. Credette che senza di lui tutte quelle persone, gli alberi, gli stessi edifici nei quali viveva e che gli erano familiari avrebbero vissuto un’esistenza migliore e più libera”.

“Conservatorio di Santa Teresa” è un libro denso, densissimo; ogni suo capitolo possiede un peso specifico tale che lo rende illusoriamente ben più esteso dei tempi narrativi che lo delimitano e indispensabile nell’economia del romanzo, per quell’accumularsi di avventure della percezione che –  al di là dell’intreccio – ne costituiscono la sostanza. Avventure della percezione e non della crescita, perché ciò che rende avvincente questo romanzo – che pure ripercorre il passaggio dall’infanzia all’adolescenza del giovane protagonista – non sono gli accadimenti, ma il continuo, ininterrotto accumularsi di sensazioni, le infinite e mutevoli reazioni che, con una intensità e una frequenza esasperante ma al contempo affascinante, il contatto con il mondo esterno provoca nell’animo del protagonista, componendo nella sua memoria interiore, straordinariamente recettiva, un disegno sempre più complesso, confuso e contraddittorio. Bilenchi costringe il lettore a seguire questo percorso che è denso di scarti improvvisi, colpi di scena, soluzioni impreviste, di tutto ciò che si potrebbe definire avventura, se non fosse tutto chiuso all’interno di un’anima – e un’anima bambina – che è una sorta di tabula rasa che va rapidamente accumulando tutto ciò che dovrebbe servirle a farsi un’idea coerente e rassicurante del mondo, ma che in realtà contribuisce ad una sempre più raffinata esperienza di una irriducibile estraneità.

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Anna Maria Ortese, “Il cardillo addolorato”

ANNA MARIA ORTESE – Il cardillo addolorato – Adelphi

il-cardillo-addolorato“Ma vi è un dolore, nel cuore di certuni… un pianto che non si acquieta così presto… anzi mai, credetemi; e così vi dico: separare donna Elmina dal suo dolore è cosa quasi impossibile. Non lo tentate. Potrebbe venirne gran male. Ah, comincio a credere anch’io, uomo di pandette, incredulo circa la bontà della natura umana, alla verità di un Cardillo nascosto in questo mondo; e che la voce, e il pianto, di un Cardillo non tace mai”.

Ciò che la Ortese produce con questo suo sorprendente romanzo è una apoteosi della narrazione, una festa, generosa e ridondante, dell’intreccio. “Il cardillo addolorato” è costituito da una materia narrativa che riproduce costantemente se stessa, prolifera e lievita, costruendo certezze, parvenze di verità, che si frantumano e franano come un castello di carte un attimo prima di assestarsi nella consapevolezza del lettore e che, sotto i suoi occhi, assumono nuove forme, inaspettate e contraddittorie, in una ridda del senso che affascina, avvince e stordisce. La trama delle passioni umane, complicate, ridicole, misteriose, dolorose, e anche buffe nella loro inesausta ricerca di compimento e di senso, sembra trovare l’ambiente naturale più adatto alla sua crescita ed alla sua riproduzione e germinazione nello spazio barocco che, pagina dopo pagina, l’architettura del romanzo va delineando. Come se gli effetti ottici, il gioco effimero degli specchi, le fughe impreviste in cui si dispiegano spazi angusti, le ombre profonde e le volute pigre e sontuose che decantano ed esaltano le linee curve fossero il necessario sostegno alla visione, al sogno e a quel tanto di illusione che si confonde con la realtà, che si nasconde nella realtà, donandole una aerea e confortante leggerezza. Il lettore si trova quindi ad affrontare una costruzione narrativa che ha le sue fondamenta nella volatilità, nella fluidità e nella metamorfosi, in un terreno che confinerebbe pericolosamente con l’assurdità e l’insensatezza se non fosse l’opera di un architetto sapiente, che nutre le sue radici culturali nell’humus ricchissimo del romanticismo europeo (e in special modo tedesco), traendone suggestioni, spunti e stimoli, eleggendolo a età dell’oro dell’immaginazione e della fantasia, scegliendolo come palcoscenico privilegiato sul quale muovere i passi della sua dolorosa sensibilità.

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Curzio Malaparte, “Kaputt”

CURZIO MALAPARTE – Kaputt – Adelphi

“Tutti hanno l’occhio disperato della renna. Sono bestie, penso, sono bestie selvatiche, penso con orrore. Tutti hanno nel viso e negli occhi la bellissima meravigliosa mansuetudine e tristezza delle bestie selvatiche, tutti hanno quell’assorta e malinconica pazzia delle bestie, la loro misteriosa innocenza, la loro terribile pietà. Quella pietà cristiana che hanno tutte le bestie. Le bestie sono Cristo, penso, e mi tremano le labbra, le mani mi tremano”.

“Kaputt” è un libro che si impone e si fa amare con l’imperiosità del capolavoro, ma amarlo è una fatica che richiede impegno ed abnegazione, amarlo è il premio che si ottiene alla fine di un percorso accidentato e dolorosissimo. “Kaputt” è un libro che si ama nonostante le perplessità che suscita in alcune sue pagine, nonostante le domande a cui non dà risposte, nonostante la confusa sensazione di leggere il resoconto di una immane tragedia attraverso gli occhi di un privilegiato per sorte e convenienza politica, di un potente che con i potenti ha a che fare, che soffre e di indigna per le loro colpe, maneggiando spesso l’arma spuntata del motto di spirito, tollerato e benvoluto da chi di tanto orrore è corresponsabile, capace di dosare disgusto e compassione, di camminare, senza cadere, sul filo di un instabile equilibrio. “Kaputt” è un libro che si fa amare nonostante l’irritazione e l’indignazione che sorgono spontanee nel lettore, costretto da Malaparte a sostare insieme a lui nelle stanze del potere, nei palazzi del potere di mezza Europa che, nel bel mezzo degli anni più bui della guerra, sopravvivono come isole fortunate, noncuranti dell’umana disperazione che le circonda. Nonostante tutto questo, “Kaputt” si impone, travolge sospetti e difese, costruisce con la potenza di una scrittura raffinatissima e lussureggiante, un affresco pieno di ombre, e dove le ombre si fanno più cupe, penetra e scava, con uno stile a tratti maestoso, capace di decantare l’epica dell’orrore, di suscitare disgusto per tramutarlo in pietà e di lenire il rimpianto e la nostalgia con gli accenti poetici di una umanissima tenerezza.

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Antonio Moresco, “La lucina”

Antonio Moresco – La lucina – Mondadori

“E io qui, seduto su questa seggiola di ferro che sprofonda sempre più nel terreno, in questo posto fuori dal mondo, a una simile distanza da tutto e dallo spazio e dal tempo e dalla mia vita e dalla mia morte…”

Potrei facilmente definire questo libro di Moresco commovente, ma la pura e semplice commozione è solo un effetto epidermico che non rende tutto il merito che è dovuto a questa splendida scrittura, disadorna, arresa e feconda. A che cosa parla, che cosa sommuove questa breve e intensa narrazione? Quali profondi pertugi nascosti, negati o volutamente dimenticati illumina questa lucina, lontana ma ben visibile e persistente? Quello che smuove e tiene avvinto a sé, costringendo il lettore a procedere in una sorta di dolorosa fascinazione, non ha a che fare con il cuore, così pronto a battere in sintonia con tutto ciò che lo sollecita, ma così altrettanto pronto a dimenticare per inseguire altri e più soddisfacenti stimoli. La narrazione di Moresco – questo a me appare come uno dei suoi segni distintivi – attraversa i sentimenti in profondità, li presuppone, come un accessorio non evitabile dell’esistenza, riserva loro uno sguardo affettuoso e persino grato, lo sguardo di un saggio, forse di un asceta, ma li abbandona in superficie in questo suo viaggio che punta diretto al senso profondo delle cose, o meglio alla domanda testarda sull’inesistente senso delle cose. Le cose ultime, quindi la vita e la sua fine.

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Angelo Maria Ripellino, “Nel giallo dello schedario”

ANGELO MARIA RIPELLINO – Nel giallo dello schedario – Cronopio

“Al fondo di ogni creazione c’è la nobile illusione di salvare il mondo. Ma chissà che l’arte non possa avere una funzione medicatrice? In termini banali, chissà che non possa esserci d’aiuto, non possa darci la salvezza procurando sulla nostra scabra pelle di fantocci meccanici una ferita di gioia?” (da “L’arte può salvarci con ferite di gioia. Angelo Maria Ripellino studioso e poeta”, intervista a cura di Corrado Bologna, in “Il nostro tempo”)

Predisporsi alle ferite e al contagio è d’obbligo per chi si inoltra nei testi di Ripellino, siano essi prose, poesie, saggi o recensioni, perché ogni sua pagina è un passo in più che conduce il lettore attraverso quell’”itinerario del meraviglioso”, quella “generosa illusione” e “stupenda demenza” che, prendendo in prestito alcune delle sue già classiche definizioni, è la letteratura. Ripellino, recensore innamorato del suo oggetto di studio, non smette per un attimo di essere poeta e contagia con i suoi guizzi interpretativi, che sono in realtà pertugi, vie d’accesso agli innumerevoli mondi della creazione artistica. Chi intende seguirlo, diventa ben presto vittima di una fascinazione al quadrato: quella generata dall’autore e dall’opera di cui si parla ma anche, nello stesso tempo e in un modo difficilmente scindibile, quella derivante dalla strabordante personalità, dalla lussureggiante scrittura di chi è chiamato a presentarli.

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Antonio Moresco, “Gli incendiati”

ANTONIO MORESCO – Gli incendiati – Mondadori

“C’è, esiste una persona al mondo, in tutto il mondo popolato di miliardi di corpi della vostra stessa specie, che affronterebbe la morte per voi? Siete vissuti almeno per poter dire a voi stessi di avere avuto in cambio questo? E, quanto a voi, esiste per voi una persona per cui dareste la vita, se fosse lei a trovarsi in una situazione simile?”

Dalla disperazione al sogno, da un incendio all’altro, un lungo autodafè, un canto incalzante che potrebbe trovare una sua collocazione in “Canti del caos”: il canto della ragazza circassa dai denti d’oro, a riprova di quella accumulazione di vene poetiche e narrative che percorre le pagine della principale opera moreschiana. Un bagliore “di carne e oro” – che si fa di volta in volta premonizione, stupore, consolazione, nostalgia, ricerca, possesso, ricordo, sogno e riconoscimento – occhieggia tra le pagine del romanzo, un bagliore persistente che avvince perché tocca un desiderio intimo di pienezza, ma anche di sovrabbondanza e di trasfigurazione, dal bagliore della carne al bagliore del fuoco. C’è un misticismo soffuso in questo romanzo, un misticismo tutto laico, che non punta alla redenzione dal peccato e alla purificazione, ma alla costruzione di un percorso che dalla infelicità, dall’isolamento e dalla quotidiana disperazione conduce prima al riconoscimento, poi al completamento, per finire in una pacificata estinzione. Un percorso che tocca i luoghi più intimi, segreti e veri della natura di un uomo, il desiderio della carne e il desiderio del cuore, intrecciati, indissolubili e destinati ad alimentarsi a vicenda. E il protagonista e voce narrante del romanzo è un asceta, uno strano tipo di asceta, un pellegrino alla ricerca di un senso, che esplora per trovarlo tutto ciò che ha a disposizione, che percorre la gabbia della sua carnalità in tutti gli angoli, anche i più remoti, predisponendosi comunque alla gioia, anche all’illusione della gioia, perennemente in attesa di una rivelazione. Questa carnalità, dalla quale l’opera di Moresco difficilmente prescinde, è modulata a tal punto da attingere persino all’osceno, persistere nella crudezza delle immagini, riuscendo paradossalmente a mantenere vivo un senso di pietas, compartecipazione dolente e quasi affettuosa, di comprensione insomma per tutto ciò che al fondo rivela un desiderio umano, maledettamente umano, una  gabbia che ha solo illusorie e momentanee vie d’uscita. E’ un asceta che non rinnega il suo corpo il protagonista di questo romanzo, ma che anzi è affezionato a lui, lo abita, non lo abbandona e lo usa per compiere fino in fondo un singolare viaggio oltre al termine della vita.

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Patrizia Runfola, “Praga al tempo di Kafka”

PATRIZIA RUNFOLA – Praga al tempo di Kafka – Sugarco edizioni

Praga al tempo di KafkaAvevo un appuntamento con Patrizia Runfola, dovevo incontrarla nella sua Praga; avevo stabilito da tempo questo nostro incontro che mi era sembrato inevitabile già leggendo di lei in “Alfabeti” di Claudio Magris. Non si può evitare di inseguire gli scritti di chi “ha il senso – morale, sensuale e doloroso – della grandezza”. Le parole di Magris su di lei e sulla sua opera, apparse sul Corriere della Sera del 21/04/2000, costituiscono sia la Prefazione alla sua raccolta di racconti “Lezioni di tenebra”, che il suo necrologio, perché la Runfola è morta nel 1999 a quarantotto anni, lasciando nei suoi scritti una traccia persistente di “regale e impavida leggerezza”. Una traccia che il lettore non può evitare di seguire perché costituisce un percorso invitante, una strada ideale da percorrere a ritroso, per giungere al centro esatto di una creatività che sopravvive al suo creatore. “Solo quando le parole abbandonano la mia anima e muoiono sui fogli per continuare a vivere negli sguardi di coloro che un giorno ne ascolteranno la musica lontana, solo allora avverto un magnifico sollievo”, scrive la Runfola all’inizio di una delle sue Lezioni. Ma si dà il caso che il centro esatto di questa anima, l’immagine della sua fantasia e della sua scrittura sia Praga, “con le sue torri, le sue pietre, le sue ombre e la sua stratificata profondità del tempo”.

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Antonio Moresco, “Gli esordi”

ANTONIO MORESCO – Gli esordi – Oscar Mondadori

“Metodo (per arrivare agli “Esordi”)

  • Conquistare un diverso rapporto con il tempo.
  • Continuare a farsi assalire dal romanzo. Girare sempre con pezzi di carta nelle tasche.
  • Tesserlo pensando ad altre cose, come in sogno.
  • Non farsi prendere dall’ansia. Se hai paura di non avere tempo sufficiente, rallenta ancora di più. Meno ci pensi e più il lavoro progredisce. Meno ti immergi e più vedi nel profondo. Solo una mente riposata può portare grandi pesi, in leggerezza. Non fare caso ai damerini, ai fogli di giornale. Non farti bloccare. Per andare avanti bisogna rompere per forza, tradire i fratelli e i maestri.
  • Le tue forze mentali sono scarse, ti prendono amnesie, tic e fissazioni. Ti è impossibile concentrarti, per questo devi lavorare su reticoli di appunti, riscrivendoli all’infinito e connettendoli. Devi avanzare cancellando. La tua testa è piena di fischi e di rumori, la gola è sempre serrata per l’angoscia. Eppure, quando hai imparato a lavorarci assieme, la decima parte del più labile dei cervelli è sufficiente alla più grande delle imprese.
  • E se l’arte non ha più nessun futuro in questo mondo… ecco il momento ideale per dedicarsi a essa!
  • Lavorare in silenzio, nel silenzio.”

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Michele Mari, “Di bestia in bestia”

MICHELE MARI – Di bestia in bestia – Einaudi

Tutto ciò che viene nutrito è per sua natura destinato a crescere, che si tratti di un organismo vivente, oppure di una passione, o di una ossessione. E queste ultime ancora di più, dovendo rispondere esclusivamente alle proprie leggi interne, e non dovendo sottostare ad alcun limite di spazio e di tempo. Una passione così totalizzante da diventare ossessione, una volta cresciuta e diventata adulta può, in determinate condizioni, dare i suoi frutti. A mio parere è questa l’origine del romanzo che lo stesso Mari definisce “come una vendicativa resa dei conti con una giovinezza interamente dedicata alla letteratura”, oltre che, in modo assertivo, totalizzante, ma anche emozionante, “il libro della mia vita”. Non entro nel merito delle differenze tra questa nuova versione e quella uscita in prima edizione nel 1989, abbondantemente spiegate e motivate dall’autore nella Nota al testo; mi basta sapere che tutte le correzioni sono state “a togliere” e che quindi “l’attuale versione, in ogni sua oltranza di lingua e di stile, era già tutta nella primissima”.

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Antonio Moresco, “Canti del caos”

ANTONIO MORESCO – Canti del caos – Oscar Mondadori

“Sono solo, completamente solo. Come si è infinitamente soli, all’inizio! Sono solo come mai è stato nessun altro scrittore di questa specie. Sono lo scrittore di un pianeta e di un mondo che non c’è più, di una specie che non c’è più, che non c’è ancora”

“Lettore irredento”, le parole con cui si apre la “Prefazione”, che dà inizio alla prima parte del romanzo e ne costituisce il titolo – la seconda si apre con l’”Invocazione alla Musa” e la terza con l’”Inizio” – sono un appello che chiarisce in modo ironico ma scevro di fraintendimenti a quale tipo di lettore Moresco intenda rivolgersi, irredento appunto, e destinato a rimanere tale, a non accontentarsi, ad alimentare la speranza di imbattersi prima o poi in un capolavoro letterario della contemporaneità – derivando forse la sua utopica illusione dall’essersi nutrito, in quanto lettore, di tanti capolavori del passato – in un’epoca in cui gli scrittori cosiddetti di successo hanno imparato bene il mestiere, quello di progettare “cosette di cento – duecento cartelle”, sviluppando uno schemino “sempre più facile di volta in volta, sempre più riuscito, sempre più tornito”, per sfornare “tanti bei compitini tutti in fila, uno ogni anno, due anni”, sfruttando tutto quello che l’industria letteraria, “le vaste e multimediali imprese economico – culturali” che gestiscono “una caricatura di questo genere sempre più marginale” mette loro a disposizione per incrementarne sia i guadagni che l’autostima.