VITALIANO TREVISAN – “Shorts” – Einaudi
“Da chi, da che cosa sono dunque posseduto?, mi chiesi ancora aprendo la finestra.”
Vediamo allora, se si può, per quel tanto che si può, di provare a dare una risposta a questa domanda, nel tentativo, anche, di capire le ragioni di una predilezione, la mia, per questo autore. Bernhard, prima di tutto. Sì, perché non si scrive sul vuoto e non si legge sul vuoto. Non esiste una tabula rasa sulla quale dal nulla compaiono le parole, le frasi, i testi che pretendono di essere scritti o che sono destinati a permanere nella memoria del lettore, finendo per determinare un’inclinazione, un gusto letterario e, quindi, anche le future letture. Ho iniziato a leggere Trevisan per via di un riconoscimento nella comune ammirazione per Thomas Bernhard e ho imparato ad apprezzare la sua voce energica, ironica e tagliente, sia nella prosa che nei testi teatrali, tanto sorprendente in quanto distante dalla voce omologata e prevedibile di tanti autori italiani contemporanei. “Shorts” rappresenta per me una felice riconferma. Da chi e da che cosa è posseduto Vitaliano Trevisan mentre scrive questi racconti? Indubbiamente dal suo maestro, indubbiamente, in particolare, da quella produzione di prose brevi del drammaturgo austriaco, forse meno conosciute, ma nelle quali si trovano, distillati e come ulteriormente purificati, i temi della sua opera.
“Orazio, quando tu guardi la candida Luna, come puoi dire che non sia Ella a guardare te?”
“Un affabulatore maestoso”
Che cosa cerco nella letteratura.
Ho voluto correre il rischio della lettura di questo libro di Mari. Dal mio punto di vista un rischio, perchè temevo di restare delusa, e noi lettori sappiamo quanto fa male dover ammettere che uno dei nostri scrittori preferiti (tra gli italiani contemporanei, Mari lo è per me) deve essere ridimensionato ai nostri stessi occhi. Sarebbe stata una delusione che forse non gli avrei perdonato. Ho rischiato per la promessa insita in questo titolo canzonatorio e ammiccante (solo, mi pare volutamente, smorzato dall’asettico sottotitolo). Ho ritrovato invece in queste pagine quello che di Mari mi affascina: che si tratti di letteratura, di musica, di vita, ciò che lasciano i suoi libri è una straordinaria sensazione di completezza, o meglio, di aspirazione alla completezza.
Ci sono libri che racchiudono molte storie parallele: quella che raccontano, quella di chi li ha scritti e quella che ci ha permesso di arrivare fino a loro. Questo è uno di quei libri. Ho conosciuto “Il segreto” perchè Magris ne parla (in “Alfabeti”) come uno di quei libri che colpiscono “come un pugno”, associandolo ad “Auto da fè” di Canetti, a “Cime tempestose” di Bronte e a “Autobiografia di mia madre” della Kincaid, ma lo cita, in modo quasi reticente, definendolo “grande e sgradevole” e dedicandogli un unico peridodo della sua, solitamente generosa, scrittura. Il libro potrebbe essere sottotitolato: “L’autobiografia di una rinuncia”.
L’incontro con un nuovo autore è, come tutti gli incontri, innanzitutto uno sguardo rivolto ad un viso, per prendere contatto con i suoi lineamenti, per impadronirsene in un primo colpo d’occhio, per intuire da questo primo sguardo future possibilità di comprensione. Ecco, questi lineamenti sono, nell’incontro in questione, la scrittura, la forma della scrittura, il ritmo, l’andamento dei periodi, la musicalità, la sua capacità evocativa, le soste e le accumulazioni, la protervia o la timidezza. Ci sono infinite possibilità di lineamenti e di caratteri in una scrittura.
Conoscevo Francesco Cataluccio per aver letto due suoi scritti: “La guerra come claustrofobia”, postfazione a “L’ospedale dei dannati” di Stanislaw Lem, e “Maturare verso l’infanzia. Introduzione a Bruno Schulz”, lo scritto che conclude l’edizione Einaudi del 2001 de “Le botteghe color cannella”, da lui curato. Ho iniziato quindi a leggere con molte aspettative questo suo libro, irresistibilmente attirata, tra l’altro, dal bellissimo sottotitolo “Quasi un breviario mitteleuropeo”. Mi sono concessa il lusso del tempo, della rilettura in itinere, perché solo dopo poche pagine mi sono resa conto di aver trovato una formidabile guida per le mie future letture, o meglio, di aver trovato colui che mi faciliterà il compito di comporle, collegarle, riordinarle in un quadro che le renderà ancora più significative.
Per puro caso, uno di quei casi che i lettori conoscono bene, ho letto questo libro dopo aver terminato quello straordinario documento che è “Preghiera per Chernobyl” della Aleksievic, mettendomi così nella condizione ideale per apprezzare al meglio il testo di Cataluccio. Inutile dire che sono ancora vive in me, e credo che lo resteranno ancora a lungo, le infinite suggestioni di “Vado a vedere se di là è meglio”. Ho ritrovato la voce di quella che ormai considero una guida di cui mi è agevole seguire il passo. Cataluccio unisce la passione del giornalista e la cultura dello studioso all’amore per l’Est europeo, e parla di ciò che conosce perchè in quelle terre ha abitato a lungo, parla di Chernobyl perchè ci è stato e di radiazioni perchè in minima parte ne ha subito gli effetti.