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letteratura uruguaiana

Juan Carlos Onetti, “Raccattacadaveri”

JUAN CARLOS ONETTI – Raccattacadaveri – Feltrinelli

“Da uno dei tuoi cortili aver guardato/ le antiche stelle,/ dalla panchina dell’ombra aver guardato/ quelle luci disperse/ che la mia ignoranza non ha imparato a nominare/ né a ordinare in costellazioni,/ aver sentito il cerchio dell’acqua/ nella segreta cisterna,/ l’odore del gelsomino e della madreselva,/ il silenzio dell’uccello addormentato,/ l’arco dell’androne, l’umidità/- queste cose, forse, sono la poesia.” (J. L. Borges, “Il Sur”, da “Fervore di Buenos Aires”)

E’ una commedia o una tragedia (come direbbe Bernhard) quella che trascorre nel tempo di “tedio e rinuncia” che si respira a Santa Maria? Tutto è predisposto per attivare i meccanismi della commedia, tutto è predisposto per il compimento ineluttabile della tragedia. Tutto si ferma, immoto, in una promessa di adempimento, tutto oscilla tra la pietà e la nausea, tutto concorre ad irretire il lettore nello stile sinuoso e paziente della scrittura onettiana. Perché l’aria di Santa Maria frantuma le velleità e propaga il contagio della solitudine e della desolazione. Santa Maria è la terra di chi ha già vissuto e che porta impressa sul volto, nei gesti, negli sguardi, nelle parole che pronuncia, la condanna biologica alla disillusione. Santa Maria è il cortile appartato dei versi di Borges da cui guardare le stelle, la panchina all’ombra da cui fissare le luci disperse, quel luogo tanto impreciso che si può solo immaginare – o inventare – rivelato dal sussurro dell’acqua di una segreta cisterna, risvegliato dal profumo stordente del gelsomino, immerso nel silenzio dell’uccello notturno, dove la vita, se la vita deve essere data, è solo “una determinata intensità d’esistenza che occupa, si invasa nella forma della sua particolare mania, della sua particolare idiozia”. Antichi errori e premonizioni sono più veri del vero a Santa Maria, il passato e il futuro più reali del presente, il resto è solo una pietosa messinscena per chi ancora, inconsapevolmente, crede di vivere.

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letteratura svizzera

Adolf Muschg, “Almeno per cominciare”

ADOLF MUSCHG – Almeno per cominciare – Edizioni Controluce

“Non era successo niente, ma quando salì le scale, ebbe la certezza che tutto era finito, e capì che non c’era mai stato nulla. Fu un crollo immenso e tuttavia completamente silenzioso, incessante; non sentì neppure che stava precipitando. Ma ciò che si diffondeva attorno a lui era ormai solo l’eco beffarda e la fioca parvenza delle cose. Si ritrovò come risvegliato da uno sfinimento durato quarant’anni, ma per cosa? Non c’era più nulla.”

La solitudine non è certo un tema insolito per un autore contemporaneo, ma quella con cui fanno i conti i personaggi di Muschg possiede un’impronta che la rende inedita e, in seguito, riconoscibile. Perché la sua scrittura è come una macchina da presa, non certo asettica, ma a suo modo impietosa che nemmeno per un attimo abbandona l’inquadratura in primo, anzi in primissimo, piano sul protagonista, escludendo così altre presenze, altre esistenze, che divengono, seppur presenti, accessorie e, forse, funzionali. C’è una luce sospesa, la luce della ribalta, ad accendere ognuna di queste pagine e il lettore non può che attendere il sopraggiungere del momento estremo dell’assoluta sincerità di un’anima e seguirla, per un tratto, trascinato da una scrittura a tal punto concentrata e tesa che si permette di tralasciare, addirittura di dimenticare, la prevedibile necessità di una trama completa. I racconti di Muschg non sono mai lineari, ma procedono a piccoli passi, in un percorso concentrico –  fatto di progressivi avvicinamenti ed improvvise deviazioni – verso il cuore dolente di un fatto drammatico o addirittura tragico che, arrivati al dunque, per una sorta di estremo pudore, viene solo sfiorato o protetto dalle sue ripercussioni, dalla sua eco, quasi sempre imperitura.

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letteratura tedesca

Victor Klemperer, “E così tutto vacilla”

VICTOR KLEMPERER – E così tutto vacilla – Scheiwiller

“Tali sono gli abissi della storia: tutto vi giace alla rinfusa e, se si cala lo sguardo per arrivare al fondo, si è colti da un senso di orrore e di vertigine” (W. G. Sebald, “Storia naturale della distruzione”)

Effetto Sebald: chi apre un suo libro si predispone ad arrendersi alla vertigine del senso, a percorrere sentieri che si incrociano, intrecciano e motivano, a non lasciarsi sopraffare dal delirio delle coincidenze e delle suggestioni e, infine, chi apre un suo libro sa che, prima o poi, farà un incontro che si prenderà il lusso di seguire, fino in fondo. E’ nelle pagine di “Storia naturale della distruzione” di Sebald che ho trovato il primo accenno agli sterminati diari dell’ebreo tedesco Victor Klemperer. Una traccia che mi sono concessa di seguire per ritrovarmi nel bel mezzo di una nuova rete di coincidenze – potenza sebaldiana – questa volta però, ben più modestamente, tutta personale e legata alla mia storia di lettrice. Come potevo infatti immaginare, recuperando il corposo volume,un estratto dei suddetti diari, fortunatamente edito da Scheiwiller nel 2010 e ancora disponibile sul mercato, che lo stesso fosse introdotto da una prefazione scritta da Antonio Moresco e, inoltre, tradotto e curato da Anna Ruchat, che ha reso così nuovamente accessibile ai lettori italiani una parte della precedente monumentale edizione uscita nel 2000 presso Mondadori e ormai introvabile? Un indiretto effetto sebaldiano: Antonio Moresco è l’autore italiano che ultimamente mi capita di leggere più spesso e che mi ha in un certo senso riconciliato con la nostra letteratura contemporanea, riempiendomi anche di felici aspettative riguardo alla sua produzione futura. Anna Ruchat è, e sarà sempre per me, la traduttrice di Thomas Bernhard, colei che ha reso possibile il mio incontro con quella grande prosa che ha in gran parte formato il mio gusto letterario.

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letteratura ceca

Pavel Kohout, “La carnefice”

PAVEL KOHOUT – La carnefice – Editori Riuniti

“Non è la prima volta, in cinquantatrè anni di vita, che reagisco a un disastro con un libro. Per me, evidentemente, scrivere è un esercizio elementare di autoconservazione” (P. Kohout)

“… eccola qui, la nostra prima futura esecutrice, e molto probabilmente anche la prima carnefice del mondo”. Sì, eccola qui, Lízinka Tachecí, l’esile fanciulla poco più che adolescente, con i suoi gomiti e le sue ginocchia fragili, il visino ancora infantile che si perde in una massa di lunghi capelli d’oro, la deliziosa fanciulla dal viso d’angelo, la brava bambina della media borghesia praghese, priva di cultura e anche di senno, ma dotata di una splendida bellezza e di una istintiva praticità, priva di passioni ma pervasa di innocenza, l’innocenza dell’indifferenza. Eccola, la promettente candidata ad assumere l’ambìto ruolo di prima donna boia, destinata ad eccellere alla scuola di formazione del perfetto carnefice. Lízinka, prima splendida apprendista e poi acclamata diplomata, che non ucciderà mai, se non una gallina e una capra durante l’esame di ammissione alla scuola e nel saggio di fine anno, quando impiccherà in modo pulito, rapido e impeccabile il suo ex docente. Una protagonista perennemente presente nelle pagine del romanzo, a partire dal titolo, che regge incredibilmente la scena, dà un ordine alle fila della narrazione senza pronunciare mai una sola parola – se non la grottesca battuta che la conclude – senza elaborare un pensiero di senso compiuto – la sua mente sembra solo reagire meccanicamente a stimoli, perlopiù visivi, ripercorrendo sempre i binari dell’analogia – assolutamente impermeabile alle sensazioni e ancora di più ai sentimenti.

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letteratura italiana

Antonio Moresco, “Gli incendiati”

ANTONIO MORESCO – Gli incendiati – Mondadori

“C’è, esiste una persona al mondo, in tutto il mondo popolato di miliardi di corpi della vostra stessa specie, che affronterebbe la morte per voi? Siete vissuti almeno per poter dire a voi stessi di avere avuto in cambio questo? E, quanto a voi, esiste per voi una persona per cui dareste la vita, se fosse lei a trovarsi in una situazione simile?”

Dalla disperazione al sogno, da un incendio all’altro, un lungo autodafè, un canto incalzante che potrebbe trovare una sua collocazione in “Canti del caos”: il canto della ragazza circassa dai denti d’oro, a riprova di quella accumulazione di vene poetiche e narrative che percorre le pagine della principale opera moreschiana. Un bagliore “di carne e oro” – che si fa di volta in volta premonizione, stupore, consolazione, nostalgia, ricerca, possesso, ricordo, sogno e riconoscimento – occhieggia tra le pagine del romanzo, un bagliore persistente che avvince perché tocca un desiderio intimo di pienezza, ma anche di sovrabbondanza e di trasfigurazione, dal bagliore della carne al bagliore del fuoco. C’è un misticismo soffuso in questo romanzo, un misticismo tutto laico, che non punta alla redenzione dal peccato e alla purificazione, ma alla costruzione di un percorso che dalla infelicità, dall’isolamento e dalla quotidiana disperazione conduce prima al riconoscimento, poi al completamento, per finire in una pacificata estinzione. Un percorso che tocca i luoghi più intimi, segreti e veri della natura di un uomo, il desiderio della carne e il desiderio del cuore, intrecciati, indissolubili e destinati ad alimentarsi a vicenda. E il protagonista e voce narrante del romanzo è un asceta, uno strano tipo di asceta, un pellegrino alla ricerca di un senso, che esplora per trovarlo tutto ciò che ha a disposizione, che percorre la gabbia della sua carnalità in tutti gli angoli, anche i più remoti, predisponendosi comunque alla gioia, anche all’illusione della gioia, perennemente in attesa di una rivelazione. Questa carnalità, dalla quale l’opera di Moresco difficilmente prescinde, è modulata a tal punto da attingere persino all’osceno, persistere nella crudezza delle immagini, riuscendo paradossalmente a mantenere vivo un senso di pietas, compartecipazione dolente e quasi affettuosa, di comprensione insomma per tutto ciò che al fondo rivela un desiderio umano, maledettamente umano, una  gabbia che ha solo illusorie e momentanee vie d’uscita. E’ un asceta che non rinnega il suo corpo il protagonista di questo romanzo, ma che anzi è affezionato a lui, lo abita, non lo abbandona e lo usa per compiere fino in fondo un singolare viaggio oltre al termine della vita.

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letteratura polacca

Aleksander Wat, “Lucifero disoccupato”

ALEKSANDER WAT – Lucifero disoccupato – Salerno Editrice

“La notte fiorisce d’un colpo di stellati esorcismi,
coi quali il giorno scaccia le nubi odorose di muschio.”

Nel 1927, mentre Stanislav I. Witkiewicz sta lavorando al suo romanzo maggiore, “Insaziabilità”, esce a Varsavia una raccolta di nove racconti, dal titolo “Lucifero disoccupato”, prima opera in prosa del giovane ventisettenne Aleksander Wat. La presente edizione italiana ne contiene cinque; presso Salerno Editrice, nella stessa collana “Minima” sono disponibili gli altri quattro, raccolti sotto il titolo “L’ebreo errante”. Apprezzata da Bruno Schulz e dallo stesso Witkiewicz, quella di Wat è un’altra voce luminosa e sferzante che si leva dalla fortunata stagione delle avanguardie polacche – letterariamente fortunata, ma drammatica e tragica per gli accadimenti storici che ne costituiscono lo sfondo e per i destini personali dei suoi protagonisti. Un giovanile furore, intransigente ed irridente, pervade queste pagine, letteralmente dissacranti, perché non si limitano a percorrere un mondo senza Dio, ma vanno ben oltre, riducendo lo stesso Lucifero, da potente e inquietante incarnazione del male a tragicomico personaggio, inerme e imbelle. Perché anche Lucifero è inutile in un mondo senza Dio.

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letteratura polacca

Stanislaw I. Witkiewicz, “Insaziabilità”

STANISLAW I. WITKIEWICZ – Insaziabilità – Garzanti

Stanislav Witkiewicz con “Insaziabilità” regala alla letteratura un potentissimo romanzo di formazione al contrario, un romanzo di deformazione, di dissoluzione, drammatico, epico e metafisico, ma anche grottesco e oltraggioso. Nulla di meno poteva uscire dalla penna di uno dei tre pilastri della cultura polacca del Novecento, cronologicamente il primo della triade Witkiewicz, Schulz, Gombrowicz, amico del primo, apprezzato, amato ed eletto a maestro dal secondo. Un romanzo che possiede la cifra distintiva di quella letteratura polacca che fiorisce tra le due guerre: la disperazione resa leggera dal filtro della follia, voluta, corteggiata e inventata per poter sfruttare appieno e modulare a proprio piacimento tutte le corde del grottesco. “Scegliendo il mio destino ho scelto la pazzia”, è l’epigrafe rivelatrice che Witkiewicz sceglie per il suo romanzo, una frase di Tadeusz Micinski, lo scrittore, poeta e drammaturgo precursore in terra polacca dell’espressionismo e del surrealismo. “Insaziabilità”, iniziato nel 1927 e pubblicato nel 1930, è un romanzo che prefigura l’infrangersi di un mondo, che accompagna la sua agonia – dell’individuo, della società, della politica, della cultura, dell’arte, della filosofia, della fede religiosa – tratteggiando un affresco epico, grandioso nella sua distorta mitologia. Perché la grande letteratura, anche quando distrugge crea, e lo fa ad un grado di intensità che non si può trovare nella realtà, perlomeno non allo stesso livello di concentrazione, non con una tale portata di generosa profusione. E così Witkiewicz, che arriva ad affermare nell’ultima pagina del romanzo “… non c’è probabilmente animale più abietto dell’uomo in tutto l’immenso creato”, impegna tutte le sue energie creative, linguistiche, immaginifiche, speculative, per costruire un impianto narrativo spiraliforme che, con una voluta e quasi esasperante lentezza, accompagna il lettore attraverso le tappe discendenti del progressivo abbrutimento – o meglio, della progressiva frantumazione interiore, della dissolvenza – del suo protagonista, il giovane e promettente Genezyp Kapen, degno esemplare di un’intera società avviata verso una inarrestabile rovina. Perché “Insaziabilità” è principalmente un immenso romanzo corale, una agghiacciante prefigurazione di ciò che la storia stava preparando per l’Europa e che negli anni ’30 già i più sagaci intellettuali e gli artisti più sensibili erano in grado di prevedere.

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letteratura austriaca

Hugo von Hofmannsthal, “La donna senz’ombra”

HUGO VON HOFMANNSTHAL – La donna senz’ombra – SE

donna-senz'ombraElogio dell’ombra, dell’imperfezione e del limite, perché solo l’ombra, l’imperfezione e il limite, e quindi l’idea della morte, intesa come consapevolezza della ineluttabilità della fine, hanno in sé i germi della fecondità e quindi la forza capace di generare la vita, e quella irrinunciabile vita dello spirito che è la creazione artistica. A circa un secolo dalla pubblicazione della “Storia straordinaria di Peter Schlemihl” di Adelbert von Chamisso, Hugo von Hofmannsthal si impadronisce di questo fecondo topos letterario, lo reinterpreta, lo rielabora, lo stravolge e se ne lascia conquistare, creando la prosa cristallina e rarefatta del suo ultimo testo narrativo, apoteosi e vertice di una produzione che sarà successivamente dedicata unicamente al teatro. Nata contemporaneamente al libretto per l’omonima opera di Richard Strauss (rappresentata per la prima volta a Vienna il 10 ottobre 1919), “La donna senz’ombra” si trasforma ben presto nelle mani di Hofmannsthal in un racconto autonomo che sottopone il suo autore ad uno sforzo compositivo notevolissimo, testimoniato dagli stralci tratti dai suoi epistolari, riportati nella Postfazione alla presente edizione curata da Elisabetta Potthoff. Un lavoro che procede nel segno della sottrazione, della decantazione e della purificazione di una trama nata sotto l’insegna della potenza icastica della fiaba e della vertigine della polisemia, dell’accumulo di significati e quindi di possibili interpretazioni.

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letteratura austriaca

Peter Handke, “La notte della Morava”

PETER HANDKE – La notte della Morava – Garzanti

“La notte della Morava”, uscito in Germania nel 2008, non è l’ultimo romanzo di Handke, ma possiede tutte le caratteristiche dell’opera definitiva: le sue pagine sono il resoconto poetico di una vita, la riscoperta e la rilettura di un’origine e di una appartenenza, il canto di una balcanicità perduta, la lotta all’ultimo sangue condotta fino al rifiuto, fino al silenzio, contro la scrittura, contro un destino e una vita ad essa dedicati. E ancora: un pellegrinaggio a tappe verso luoghi e paesaggi dell’anima, un viaggio interiore nella memoria e nella consapevolezza della propria essenza e poi il bilancio di un amore, così conturbante e violento da essere desiderato, ma innumerevoli volte rifiutato e avvertito come un pericolo. Handke, che è uno scrittore esigente con i suoi lettori, con il suo stile ostico, spesso criptico, con le sue favole metafisiche, con quegli sprazzi di poeticità così rari, improvvisi e avari che sembrano evitare di proposito qualsiasi possibilità di condivisione o di riconoscimento, con questo romanzo li travolge letteralmente, concedendo loro l’accesso ad una materia narrativa fantastica ma anche evidente trasposizione di esperienze e memorie reali, oltretutto strutturata in modo geniale ed accattivante, in grado di mantenere uno schermo, una sorta di residua distanza tra l’autore e la narrazione e quindi tra l’autore e il lettore.

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letteratura ceca letteratura italiana

Patrizia Runfola, “Praga al tempo di Kafka”

PATRIZIA RUNFOLA – Praga al tempo di Kafka – Sugarco edizioni

Praga al tempo di KafkaAvevo un appuntamento con Patrizia Runfola, dovevo incontrarla nella sua Praga; avevo stabilito da tempo questo nostro incontro che mi era sembrato inevitabile già leggendo di lei in “Alfabeti” di Claudio Magris. Non si può evitare di inseguire gli scritti di chi “ha il senso – morale, sensuale e doloroso – della grandezza”. Le parole di Magris su di lei e sulla sua opera, apparse sul Corriere della Sera del 21/04/2000, costituiscono sia la Prefazione alla sua raccolta di racconti “Lezioni di tenebra”, che il suo necrologio, perché la Runfola è morta nel 1999 a quarantotto anni, lasciando nei suoi scritti una traccia persistente di “regale e impavida leggerezza”. Una traccia che il lettore non può evitare di seguire perché costituisce un percorso invitante, una strada ideale da percorrere a ritroso, per giungere al centro esatto di una creatività che sopravvive al suo creatore. “Solo quando le parole abbandonano la mia anima e muoiono sui fogli per continuare a vivere negli sguardi di coloro che un giorno ne ascolteranno la musica lontana, solo allora avverto un magnifico sollievo”, scrive la Runfola all’inizio di una delle sue Lezioni. Ma si dà il caso che il centro esatto di questa anima, l’immagine della sua fantasia e della sua scrittura sia Praga, “con le sue torri, le sue pietre, le sue ombre e la sua stratificata profondità del tempo”.

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