PETER HANDKE – La notte della Morava – Garzanti
“La notte della Morava”, uscito in Germania nel 2008, non è l’ultimo romanzo di Handke, ma possiede tutte le caratteristiche dell’opera definitiva: le sue pagine sono il resoconto poetico di una vita, la riscoperta e la rilettura di un’origine e di una appartenenza, il canto di una balcanicità perduta, la lotta all’ultimo sangue condotta fino al rifiuto, fino al silenzio, contro la scrittura, contro un destino e una vita ad essa dedicati. E ancora: un pellegrinaggio a tappe verso luoghi e paesaggi dell’anima, un viaggio interiore nella memoria e nella consapevolezza della propria essenza e poi il bilancio di un amore, così conturbante e violento da essere desiderato, ma innumerevoli volte rifiutato e avvertito come un pericolo. Handke, che è uno scrittore esigente con i suoi lettori, con il suo stile ostico, spesso criptico, con le sue favole metafisiche, con quegli sprazzi di poeticità così rari, improvvisi e avari che sembrano evitare di proposito qualsiasi possibilità di condivisione o di riconoscimento, con questo romanzo li travolge letteralmente, concedendo loro l’accesso ad una materia narrativa fantastica ma anche evidente trasposizione di esperienze e memorie reali, oltretutto strutturata in modo geniale ed accattivante, in grado di mantenere uno schermo, una sorta di residua distanza tra l’autore e la narrazione e quindi tra l’autore e il lettore.
Avevo un appuntamento con Patrizia Runfola, dovevo incontrarla nella sua Praga; avevo stabilito da tempo questo nostro incontro che mi era sembrato inevitabile già leggendo di lei in “Alfabeti” di Claudio Magris. Non si può evitare di inseguire gli scritti di chi “ha il senso – morale, sensuale e doloroso – della grandezza”. Le parole di Magris su di lei e sulla sua opera, apparse sul Corriere della Sera del 21/04/2000, costituiscono sia la Prefazione alla sua raccolta di racconti “Lezioni di tenebra”, che il suo necrologio, perché la Runfola è morta nel 1999 a quarantotto anni, lasciando nei suoi scritti una traccia persistente di “regale e impavida leggerezza”. Una traccia che il lettore non può evitare di seguire perché costituisce un percorso invitante, una strada ideale da percorrere a ritroso, per giungere al centro esatto di una creatività che sopravvive al suo creatore. “Solo quando le parole abbandonano la mia anima e muoiono sui fogli per continuare a vivere negli sguardi di coloro che un giorno ne ascolteranno la musica lontana, solo allora avverto un magnifico sollievo”, scrive la Runfola all’inizio di una delle sue Lezioni. Ma si dà il caso che il centro esatto di questa anima, l’immagine della sua fantasia e della sua scrittura sia Praga, “con le sue torri, le sue pietre, le sue ombre e la sua stratificata profondità del tempo”.
“I viaggiatori dei treni notturni che attraversano le frontiere nei Balcani si somigliano molto”. Entrano in una pianura dove il tramonto “promette di essere eterno”, dove si incontrano persone che raccontano le loro storie perché questo è l’unico modo per protrarre “anche se per poco una partita dal finale già deciso”. Dove “gli scrittori sono i chirurghi dell’animo”, che asportano “quanto vi è di marcio e decomposto” e che rischiano di diventare disgustosi con il “loro modo di traformare tutto in storie”, perché “ormai nessuna storia può più essere inoffensiva”. Dove ci si imbatte in uomini severi e solenni, smaglianti e folgoranti, in avventurieri riservati, in mugik francesi o in russi pieni di charme. Dove le città si vanno popolando “di vagabondi e schizzati”, ridotte ad una “minuziosa topografia da barbone”, dove quello che si desidera, tanto non arriva mai. Dove anche “una piccola animuccia di maiale” alberga al suo interno un insospettato splendore. Dove peonie e pansè sfioriscono in una impossibile inarrestabile invincibile storia d’amore impalpabile come i ricordi comuni di ciò che non è mai avvenuto.
“Il romanzo ideale è quello in cui il filo conduttore fra i differenti episodi è una mosca che svolazza. Posso anche ripeterlo: il filo conduttore deve essere una mosca che svolazza”.
Tutto ciò che viene nutrito è per sua natura destinato a crescere, che si tratti di un organismo vivente, oppure di una passione, o di una ossessione. E queste ultime ancora di più, dovendo rispondere esclusivamente alle proprie leggi interne, e non dovendo sottostare ad alcun limite di spazio e di tempo. Una passione così totalizzante da diventare ossessione, una volta cresciuta e diventata adulta può, in determinate condizioni, dare i suoi frutti. A mio parere è questa l’origine del romanzo che lo stesso Mari definisce “come una vendicativa resa dei conti con una giovinezza interamente dedicata alla letteratura”, oltre che, in modo assertivo, totalizzante, ma anche emozionante, “il libro della mia vita”. Non entro nel merito delle differenze tra questa nuova versione e quella uscita in prima edizione nel 1989, abbondantemente spiegate e motivate dall’autore nella Nota al testo; mi basta sapere che tutte le correzioni sono state “a togliere” e che quindi “l’attuale versione, in ogni sua oltranza di lingua e di stile, era già tutta nella primissima”.
“Quest’epoca è fatta di tenebre, difenditi contro di loro”
“Io non sono io né sono l’altro,/ sono qualcosa di intermedio:/ pilastro del ponte di tedio/ che va da me all’Altro.”
I lettori di Henry James sanno bene che tutto ciò che egli scrive ha in fondo a che fare con i fantasmi, perché la sua tecnica letteraria evita accuratamente di fornire spiegazioni razionali e avviluppa lentamente in luci ed atmosfere colme di tutto ciò che si può tentare di percepire, tutto tranne la rassicurante chiarezza della logica. I suoi racconti sono prodigi dell’immaginazione che prendono forma grazie all’arte del narratore; i suoi racconti sono prodighi di trame che prendono forma e vita, ma una forma rarefatta e indistinta, riservata a chi, per un momento, è in grado di coglierla: un’apparizione insomma. Se questo è vero, allora i fantasmi che compaiono nei racconti compresi nella presente raccolta sono fantasmi al quadrato, le creature più appariscenti di James.
“Ecco la breccia, da cui irrompeva l’imprevisto e spargeva il terrore”