La lirica di Ingeborg Bachmann. Interpretazioni – a cura di Luigi Reitani – Cosmopoli
Nel novembre del 1993 l’Università degli Studi di Udine, in collaborazione con l’Istituto Austriaco di Cultura di Milano, organizza un convegno dal titolo “La notte deve voltar pagina. La lirica di Ingeborg Bachmann”. La maggior parte dei contributi raccolti nel presente volume nasce proprio in quella occasione. Ogni saggio è incentrato su una singola poesia della Bachmann e il volume si presenta complessivamente come una proposta di lettura di diciassette diverse liriche, articolata secondo l’ordine cronologico della pubblicazione dei testi e attuata da diciassette studiosi diversi (tra gli italiani, Giorgio Manacorda, Maria Teresa Mandalari, Luigi Reitani, Antonella Gargano, Giuseppe Dolei e Fabrizio Cambi). La silloge è arricchita da una introduzione del curatore, Luigi Reitani, dal testo – in lingua e in traduzione – di ogni lirica, da un ricchissimo apparato di note e citazioni – anch’esse tradotte – e si conclude con una Cronologia della vita e delle opere di Ingeborg Bachmann e con una accuratissima Bibliografia.
Rileggo spesso le liriche della Bachmann e, tra quelle contenute nella raccolta “Invocazione all’Orsa Maggiore”, ancora più spesso i “Lieder auf der Flucht”, i “Canti lungo la fuga”. Principalmente per la consapevolezza che non esiste la possibilità di dichiarare finita, terminata, la lettura della poesia, quando è grande poesia, e poi, probabilmente, anche per convincermi che sia veramente esistita una simile voce poetica, una simile voce poetica femminile. Fuga, “Flucht”, è un termine che ricorre spesso nel lessico poetico della Bachmann; i suoi versi sottendono spesso un movimento, un allontanamento o, al massimo, delle soste precarie e momentanee, già consapevoli della propria transitorietà. Forse rileggo così spesso questi “Canti” perché, nel mio immaginario, sono quelli che meglio rappresentano il soggetto poetico che li ha generati, la sua anima così complessa e contraddittoria, ritrosa ma anche votata all’espressione di sé. Perché la Bachmann sembra costantemente negarsi, ma anche concedersi, sembra esistere di un’esistenza perentoria ed esigente, nelle brevi soste di una vita interiore da fuggitiva.
“La difficoltà di scrivere sulla filosofia di Wittgenstein, e soprattutto sulla sua poesia, infatti secondo il mio punto di vista si tratta nel caso di Wittgenstein di un intelletto (cervello) poetico, e dunque di un cervello filosofico, ma non di un filosofo, è la difficoltà più grande che vi sia. E’ come se io dovessi scrivere qualcosa (proposizioni) su me stesso, e questo non può essere […]. La questione è se io posso scrivere su Wittgenstein un attimo senza distruggere lui (Wittgenstein) o me stesso (Bernhard) […]. Wittgenstein è una domanda alla quale io non posso rispondere… Così io non scrivo su Wittgenstein non perché non posso, bensì perché io non posso rispondergli”.
“E non si muta forse in metafora ogni cosa
“Eppure non aveva mai il pensiero che osservassero lui di persona, lui che passava in quel punto a capo chino, o si inginocchiava presso un garofano per legarlo con un filo di rafia, o si curvava sotto i rami; ma gli pareva che guardassero l’intera sua vita, la sostanza più profonda del suo essere, quella sua incomprensibile insufficienza umana”.
“Adesso invece, se pure [le ombre dei morti] potessero ritornare e davvero ritornassero, non sarebbero più un conforto per noi. Perfino le ombre più care si aggirerebbero sconsolate in questo tempo profanato – o basta già invecchiare per rimanere profanati noi pure? Anzi forse, se ci scorgessero, si deciderebbero anch’esse, piangendo e gemendo, a fare quel che il tempo già fa: distruggerci”.
Nato nel 1897 e morto nel 1976, Lernet-Holenia ha avuto l’opportunità di essere consapevole testimone del tramonto dell’impero e della nascita del mito asburgico, di quella sua sopravvivenza nella memoria, nel ricordo e nella nostalgia che ha regalato alla letteratura mitteleuropea tante opere di inestimabile valore. La fine di un mondo ha il potere di racchiudere in sé, quasi miracolosamente illuminato, reso tangibile nella sua essenza, depurato da ogni orpello esteriore, ciò di cui era costituito, di fissare per sempre i suoi lineamenti, di renderli immediatamente riconoscibili. Non stupisce quindi il fatto di ritrovare tutto ciò nel romanzo “Lo stendardo”, opera del 1934, perché, come afferma Magris nel suo ricchissimo e fondamentale saggio “Il mito absburgico nella letteratura austriaca moderna”, “Il mito asburgico, lungi dal morire con la fine dell’Impero, sembra anzi avere iniziato con questa la sua più suggestiva e interessante stagione”, d’altra parte il mito non si nutre certo di una realtà oggettiva, ma di memoria e di nostalgia, affidate alla parola. La grande tradizione della narrativa austriaca del Novecento appare permeata, definita e, addirittura sconvolta da una trasformazione così radicale di tutta una civiltà, dal passaggio dalla sicurezza e dall’ordine, alla scoperta del disordine del mondo.