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GIUSEPPE UNGARETTI, “Lettere a Bruna”, Oscar Mondadori

A cura di Silvio Ramat

“Faccia freddo o caldo, squilli il cielo in una torrida furia o si faccia livido e terribile, enigmatico, per eccesso di tensione repressa, l’amore si aggira protetto da se stesso e si ferma a contemplarsi a nutrirsi di sé.”

Dobbiamo essere molto grati alla Signora Bruna Bianco per aver voluto rendere pubbliche queste lettere private, testimonianza di un amore profondo, inaspettato e intenso che cinquant’anni fa l’ha legata a Giuseppe Ungaretti durante gli ultimi anni della vita del grande poeta. Una gratitudine che è d’obbligo per una serie di ragioni, alcune legate al puro gradimento estetico che si trae da questi scritti grazie alla loro bellezza, altre all’ammirazione che essi suscitano poiché testimoniano la nascita e la crescita di un profondo legame, non solo sentimentale ma anche intellettuale e spirituale che ha investito tutti gli aspetti di entrambe le vite coinvolte, e infine, ed è forse la ragione preminente destinata a durare nel tempo e nell’immaginario dei lettori, una gratitudine dovuta al contributo che queste lettere offrono alla conoscenza dell’interiorità di un poeta – uno dei nostri massimi poeti – accessibile fino ad ora solo – e non è certo poco – attraverso i suoi versi. 

Le lettere a Bruna aprono quindi un varco ulteriore, una via diretta verso quell’intimità, fatta di sentimenti, pensieri, ricordi, speranze, conoscenze, ma anche di dolori, incertezze e paure, che ha generato e poi nutrito la poesia che conosciamo e amiamo.

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ANGELO MARIA RIPELLINO, “Notizie dal diluvio. Sinfonietta. Lo splendido violino verde”, Einaudi

A cura di Alessandro Fo, Federico Lenzi, Antonio Pane, Claudio Vela

“Non c’è divario tra i miei saggi, i miei racconti, le mie liriche: allo stesso modo diramano le loro radici nell’humus del teatro, della finzione pittorica, allo stesso modo ricorrono alle duplicazioni e ai camuffamenti. Un’ebbra molteplicità di rimandi e reminiscenze ricerca e nutre il tessuto della mia scrittura: ombre jiddisch, immagini di Klee e di Magritte, motivi di Mahler e di Janáček, splendori barocchi, truculenze boeme, vampate di zolfo vi convergono come in un gran Baraccone dalle luci malate, scontorto da smorfie di clownerie, sconquassato da raffiche di ipocondria e di rimpianti.”

Così scrive Ripellino nel testo “Di me, delle mie sinfoniette”, riportato in Appendice al presente volume, confermando il sospetto che coglie i suoi lettori, abituati a ritrovare sempre nei suoi scritti, anche se di vario genere, la stessa esuberanza lessicale e originalità di pensiero che li rendono vivi, luminosi e toccati da una sorta di grazia. Esuberanza e originalità che ovviamente esplodono nella poesia, nel luogo in cui – ed è sempre l’autore ad affermarlo – si difende “la sempre insidiata libertà dell’uomo”. Le sue parole “tangibili come oggetti” sono al servizio di un pensiero che gioca, si camuffa, si diverte a costruire trabocchetti e castelli di illusioni fantastiche, ma che pure sosta sempre lì, sull’orlo di un abisso. La poesia di Ripellino è la lacrima disegnata sulla maschera di un clown. Ma è anche “il cuore e la fonte di ogni sua attività letteraria”, come afferma Alessandro Fo nell’introduzione al volume, perché per lui la poesia è “una manifestazione prepotentemente vitale, che ha il compito di lenire e contrastare il dolore e, a un più alto e decisivo livello di scontro, tenere a bada la morte”.

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MICHELE MARI, “La stiva e l’abisso”, Einaudi

“.. finchè navigo voglio solo navigare, essere una cosa sola con il fasciame e l’alberatura velata, vibrare come una gomena tesa, impregnarmi di mare come le vele di fiocco, quando le onde son prese di punta e la schiuma sormonta il bompresso, sì, voglio essere pura voce imperiosa, ‘Molla tutto!’, ‘Inverti la barra!’, puro flatus nell’orror tenebroso della tempesta, fatto della stessa sostanza degli schiocchi dei paranchi e del rimbombante muggito del mare…”

Tutti, credo, abbiamo iniziato a leggere per soddisfare un bisogno di avventura, che andasse oltre a quella che i giorni ci riservavano o che da soli avremmo potuto immaginare, desiderare o temere. Ce ne siamo nutriti e appassionati fino a che l’avventura è diventata una metafora della vita e abbiamo continuato a cercarla nei libri, a svelare i suoi camuffamenti, ad individuare le sue diverse facce, scoprendo che poteva travalicare le trame, liberarsi dai loro lacci, annidarsi nelle parole, nelle loro forme e strutture, diventando così inesauribile e inimmaginabile. Gli scrittori veri sono legati a doppio filo con l’avventura della parola, di tutte le sue forme e sfumature, del loro modo di ricreare ogni volta il mondo, sono degli avventurieri e leggerli significa seguirli, inoltrarsi con loro verso l’ignoto, spesso senza punti di riferimento. Si può fingere che sia solo un gioco, ma nessun trastullo o passatempo ha a che fare con il nostro bisogno di conoscenza o, come dice Stig Dagerman, nel titolo del suo bellissimo libro, di consolazione.

In questo senso Michele Mari è il principe degli avventurieri, non solo perchè ha riempito la sua letteratura di quello che fin dalle sue origini di lettore lo aveva entusiasmato e tenuto avvinto alle pagine, ma anche e soprattutto perchè ha trasfigurato tutto ciò contaminandolo con quel mondo delle lettere di cui è un inesausto esploratore, l’ha contaminato con tutti gli espedienti che la retorica gli mette a disposizione, ha forzato la lingua obbligandola ad utilizzare parole ed espressioni desuete ma piene di fascino e di molteplicità di significati. Ha riempito le sue pagine di labirinti in cui ci si inoltra pieni di incertezza e di stupore, di dubbi interpretativi, di reminiscenze e di consonanze, afferrando frammenti affascinanti e perdendo, quando si crede di averlo compreso, il senso dell’insieme, per poi ritrovarlo, ipotizzare, costretti a ritornare su pagine già lette e riscoprire così la loro bellezza.

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ANNA MARIA ORTESE, “L’infanta sepolta”, Adelphi

Cura e Postfazione (“Pavana per un’infanta”) di Monica Farnetti

Notizia bibliografica di Giuseppe Iannaccone

“Può darsi che tutte queste non fossero che fantasticherie, torbide supposizioni di un cuore che, ieri come oggi, è portato a vedere dovunque dei prigionieri, a riconoscere in ogni albero un carcere di spiriti ardenti, in ogni sasso una cella infame, dove qualcuno arde e si  lamenta.”

Più si legge la Ortese e più ci si rende conto che è impossibile penetrare fino in fondo al fascino misterioso che tiene avvinti alle sue pagine, che è impossibile raggiungere il centro, il cuore profondo che le ha generate. Ogni suo libro appare al lettore come quello definitivo, quello che racchiude i lineamenti di uno spirito così complesso che, per non soccombere agli infiniti impulsi che lo sollecitano, sembra avere l’impellente bisogno di riversarsi e di rivelarsi attraverso un linguaggio ardito, evocativo, coloratissimo e capace di generare con la sua sola forza immagini inverosimili e di renderle plausibili, di dare vita a narrazioni là dove persino la sola immaginazione si arrenderebbe.

Ma poi la selvaggia malinconia, l’irriducibile struggimento che guidano la penna di questa grande scrittrice danno vita ancora e ancora a nuove avventure letterarie, perché tali sono le meravigliose architetture che reggono romanzi come “L’iguana”, “Il cardillo addolorato”, “Alonso e i visionari”, “Il porto di Toledo” e ogni volta si scoprono riconferme, si avvertono i segni di un clima noto, ma ogni volta la meraviglia è anche avvinta da qualcosa di diverso, arioso ed enigmatico, che genera dapprima sconcerto e poi ammirazione per una creatività che sa rinnovarsi e crescere su se stessa intorno al nucleo spirituale di un’anima che sfugge e si nasconde. “Nessuno scrittore ha insegnato alla Ortese questa callida acredine del discorrere, quella volatile furia e insieme quella macerazione labirintica che danno, fin dalle prime pagine, una letizia aspra, inquieta, insonne e insieme allucinatoria”, scrive Giorgio Manganelli. Ed è con i racconti giovanili che tale nucleo inizia a delinearsi, con quelli inseriti nelle sue due prime raccolte, “Angelici dolori” e “L’infanta sepolta”, vero e proprio laboratorio di quel misterioso vaneggiare intorno a immagini incantate che sarà cifra e conferma della maturità dell’autrice.

Monica Farnetti nella Postfazione alla presente edizione, dal bellissimo titolo “Pavana per un’infanta”, suddivide i diciassette racconti de “L’infanta sepolta” in tre gruppi, partizioni ovviamente affatto rigorose data la natura di una ispirazione letteraria che tende a sfuggire alle categorizzazioni, a indulgere a virate improvvise e a contaminare temi e generi: “.. la prima [è riservata] a miraggi, contemplazioni estatiche e apparizioni angeliche, la seconda a situazioni autobiografiche, infantili e non, spesso in varia accezione alterate, direbbe lei, dal rumore del mare [..], l’ultima a vedute, tipi e tradizioni di Napoli – non senza che tratti caratteristici di una sezione slittino in un’altra, e viceversa, scompigliandone il disegno complessivo”.

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GIORGIO MANGANELLI, “Centuria. Cento piccoli romanzi fiume”, Adelphi

Introduzione di Italo Calvino

Nota al testo di Paola Italia

“Libriccino sterminato, insomma; a leggere il quale il lettore dovrà porre in opera le astuzie che già conosce, e forse altre apprenderne: giochi di luce che consentono di leggere tra le righe, sotto le righe, tra le due facce di un foglio, nei luoghi ove si appartano capitoli elegantemente scabrosi, pagine di nobile efferatezza, e dignitoso esibizionismo, lì depositate per vereconda pietà di infanti e canuti.”

Primo e unico libro di narrativa di Manganelli, definito a ragione da Paola Italia, nella ricca Nota al testo, un “coacervo di materiali narrativi”, “Centuria”, che si compone, come dice il sottotitolo, di “cento piccoli romanzi fiume”, è considerato dallo stesso autore “una vasta ed amena biblioteca” e, a prima vista, appare al lettore anomalo rispetto al resto della sua vasta produzione. Perché in queste pagine Manganelli, che ha fatto della metaletteratura il suo terreno di gioco ed esplorazione, mostrandosi refrattario alle trame e alle strutture tradizionali, sembra voler dare spazio alle infinite possibilità che gli vengono offerte dalla propria capacità di elaborare invenzioni narrative, condensate, essenziali, in nuce, densissime ma tutte passibili di uno sviluppo che potrebbe trasformare ognuna di loro in un vero e proprio romanzo.

Una sorta di enciclopedia manganelliana quindi, di casistica narrativa, l’intero universo di trame di uno scrittore che però, anche qui, inventa linguaggi, gioca con le parole e con le idee e che rimane quindi, sempre e comunque riconoscibile. “Eppure si tratta più che mai di Manganelli: l’universo in cui i cento romanzi d’una sola pagina si situano è lo stesso in cui in altri libri si scatena la sua tregenda di metafore come un sabba di streghe”, così scrive Calvino nell’Introduzione. “Centuria” è anche il libro che attesta e testimonia la vicinanza letteraria e la stima reciproca che legano Manganelli e Calvino, che li fanno procedere, in anni fortunatissimi di felice scrittura per entrambi, in direzioni parallele, portandoli forse persino ad influenzarsi reciprocamente. E’ innegabile la vicinanza di ispirazione tra i cento romanzi fiume manganelliani e i dieci romanzi iniziati e mai finiti che compongono “Se una notte d’inverno un viaggiatore” di Calvino, come è impossibile non ritrovare, in alcune centurie, città immaginarie che potrebbero non sfigurare accanto alle magiche architetture de “Le città invisibili”: “Nella città semiabbandonata, devastata dalla peste e dalla storia, vivono poche persone che cambiano continuamente abitazione. La tetra storia della città ha fatto sì che i sopravvissuti, e i pochi che sono accorsi ad abitarla, inclinino ad un atteggiamento astratto e meditativo. Poiché le abitazioni sono innumerevoli, anche se tutte un poco fatiscenti, ciascuno si cerca una abitazione congeniale all’umore, alla ricerca, all’angustia del momento”. 

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ELSA MORANTE, “L’isola di Arturo”, Einaudi

Introduzione di Cesare Garboli

“Si riudì l’urto dei flutti, giù, contro i piccoli golfi: e io, a quel suono, vidi nel pensiero la figura dell’isola distesa nel mare, coi suoi lumini; e la Casa dei guaglioni, quasi a picco sulla punta, con le porte e le finestre chiuse nella grande notte d’inverno. Come una foresta toccata dall’incanto, l’isola nascondeva sepolte in letargo le creature fantastiche dell’estate. In tane introvabili sottoterra, o negli anfratti delle mura e delle rocce, riposavano le serpi e le tartarughe e le famiglie delle talpe e le lucertole azzurre. I corpi delicati dei grilli e delle cicale si sfacevano in polvere, per rinascere poi a migliaia, cantando e saltando. E gli uccelli migratori, spersi nelle zone dei Tropici, rimpiangevano questi bei giardini. Noi eravamo i signori della foresta: e questa cucina accesa nella notte era la nostra tana meravigliosa. L’inverno, che finora m’era sempre apparso una landa di noia, d’un tratto stasera diventava un feudo magnifico.”

La scrittura della Morante, in questo ma anche in altri suoi magnifici romanzi, sembra aggirarsi costantemente nei pressi di un paradiso tutto terrestre e perciò umanissimo, a volte, ma per breve tempo, goduto con pienezza, altre ardentemente desiderato oppure crudelmente rimpianto. Un paradiso che è una sorta di stato di grazia, connesso all’origine, alla sicurezza, alla pienezza, alla sperimentazione di quell’amore assoluto che domina, o dovrebbe dominare, il tempo lungo e leggendario dell’infanzia. Il tempo in cui essere amati non richiede ricerca, sforzo o fatica, perchè è naturale, connesso con la vita stessa, e non conosce il crudele dolore della disillusione.

Ma è in questo romanzo che lo stato di grazia originario, sognato e di fatto irraggiungibile, da metaforico diventa in qualche modo reale, perché l’isola di Procida nella penna della Morante viene ad assumere tutte le valenze di un vero e proprio paradiso terrestre. E non si tratta solo di ambientazione: l’isola pervade di sé tutte le pagine del romanzo, dall’inizio alla conclusione, respira tra le righe, si impone all’immaginario del lettore con i suoi profumi, il suo silenzio, le mille sfumature del suo mare e dei suoi cieli nel lento e pigro trascorrere delle stagioni. La penna della Morante non descrive, piuttosto evoca, si attarda, pigra e ammaliante, rende con le parole – con la sua scrittura “esotica e familiare, naturale e iperbolica”, come la definisce Garboli nell’introduzione – l’atmosfera senza tempo di una terra che appare nello stesso tempo naturale e mitica, ricchissima e misteriosa.

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Paolo Miorandi, “Verso il bianco – diario di viaggio sulle orme di Robert Walser”

PAOLO MIORANDI – Verso il bianco – diario di viaggio sulle orme di Robert Walser – Exòrma.

“Negli anni in cui il male di vivere si era fatto più intenso e la sottile scorza che ricopre la nuda vita si era crepata, forse nulla mi ha dato più conforto dei libri di Robert Walser. Li ho letti come un credente legge le vite dei santi, per rinnovare la preghiera di una bellezza al termine dell’angoscia, di un felice oblio nella resa di ogni volontà e scopo, di una gioia ancora possibile nella sottomissione alle nuvole, al vento e alle strade che non conducono da nessuna parte.”

L’anima schiva, delicata e gentile di Walser che inseguì così tenacemente l’aspirazione a divenire uno zero assoluto, che da un angolo in disparte osservò il mondo e la vita con gli occhi di un povero poeta disconosciuto, non avrebbe forse mai immaginato che i suoi scritti, dopo quella sua morte così commovente e così misteriosamente affine alla sua essenza più profonda, avrebbero suscitato un’ammirazione quasi religiosa in quel tipo di lettore che per insondabili motivi prova una sorta di consolazione al cospetto della purezza che li contraddistingue. E non si può certo negare che quella invisibilità agli occhi del mondo a cui tanto aspirava non sia stata raggiunta, unitamente però, nel corso del tempo, all’inevitabile attenzione – ammirata e anch’essa discreta, quella che si dà allo splendore fragile di ciò che è irripetibile e inimitabile – di grandi del calibro di Kafka, Benjamin, Musil, Hesse, e ancora, Canetti e Sebald, che gli hanno riservato un posto privato, del tutto avulso da correnti e tematiche, tra i grandi scrittori della letteratura tedesca del Novecento. 

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Marco Steiner, “Isole di ordinaria follia”

MARCO STEINER – Isole di ordinaria follia – Marcianum Press

La pioggia gialla

“Su quest’isola il vento e la rabbia hanno arato la terra con unghie sfibrate, hanno seminato note in un vuoto spartito,/ e la terra s’è mossa rotolando nel vento, ha raggiunto la riva, s’è infilata/ nel mare, s’è imbevuta di nuvole e sale, ha allungato alghe e radici per/ raggiungere e afferrare Venezia, perchè Venezia è l’utero delle storie di/ mare.”

Ci sono libri che nascono da una passione intelligente, dal desiderio di assecondarla, di nutrirla, di condurla ad esiti inaspettati e di lasciare che poi continui a percorrere la sua strada. In questo libro – che parla di follia, che si avvicina al buio spaventevole della follia, anzi, che ad esso aderisce penetrandolo – si avverte, decantata e modulata, la passione per il mare, per quella città sempre sognata e forse mai del tutto compresa nella sua inesauribile essenza che è Venezia, per le vite degli uomini spesso avviluppate intorno ad un nucleo doloroso, per il mondo circoscritto delle isole, luoghi conclusi serrati in se stessi, così affascinanti per qualsiasi immaginario letterario, per le tracce indelebili che la letteratura è in grado di incidere nella mente e nell’anima e, infine, per il viaggio, reale o metaforico che sia.

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letteratura italiana

Carmelo Samonà, “Fratelli e tutta l’opera narrativa”

CARMELO SAMONÀ – Fratelli e tutta l’opera narrativa – Oscar Mondadori

Fratelli
“Immagini un angelo caduto,” – disse lentamente – “non per superbia, ma per un errore del caso. Conserverà la bellezza delle sue origini, la parola alata, i movimenti fatui; i suoi occhi nasconderanno un mistero, il suo corpo sarà fragile come un cristallo. Ma è un angelo caduto: dunque una creatura anomala, dolorosa e goffamente sublime. E’ umana? Certamente è composita, e dunque è anche umana, ma fra i propri simili rimarrà sola e sperduta e sarà punita e reietta.” (da “Casa Landau”)

Carmelo Samonà, riconosciuto come uno tra i maggiori studiosi di letteratura spagnola in ambito internazionale, pubblica il suo primo romanzo, “Fratelli”, all’età di circa cinquant’anni, nel 1978. Ad esso seguirà “Il custode”, nel 1983, e “Casa Landau”, pubblicato postumo nel 1990. I tre volumi risultano attualmente ancora reperibili, sia pur con qualche difficoltà, da chi voglia conoscere l’opera di un autore coltissimo e raffinato che ha fatto della letteratura per molti anni l’oggetto di uno studio appassionato, per trovare poi una propria voce, personalissima, evocativa e profondamente intensa, in grado di creare uno spazio letterario inedito. 

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Valerio Aiolli, “Il carteggio Bellosguardo. Henry James e Constance F. Woolson: frammenti di una storia”

VALERIO AIOLLI – Il carteggio Bellosguardo. Henry James e Constance F. Woolson: frammenti di una storia – Italo Svevo – Piccola Biblioteca di Letteratura Inutile

Camminare

“Nell’aprile 1880 Constance prese alloggio a Firenze, in qualcosa di molto simile a una camera con vista. Venne a sapere che anche Henry era in città. Lei lo considerava il più grande scrittore del suo tempo. Lo ammirava senza riserve. Desiderava ardentemente conoscerlo, e gli aveva già inviato diverse lettere in cui gli chiedeva un incontro. Lui non aveva mai detto di no. Gliene inviò un’altra”.

Ho scelto di leggere questo piccolo libro per devozione nei confronti di Henry James e per il titolo accattivante della collana di cui fa parte. In un mondo editoriale di annunci roboanti e di quarte di copertina che apparentano nuovi sconosciuti autori a giganti indiscussi della letteratura, ponendo salde basi per smentite e delusioni, l’inutilità, affermata con un pizzico di ironia, è senza dubbio una virtù. Come lo sono l’onestà intellettuale e la misura, quando si tratta di rendere conto, se non di una fascinazione, senza dubbio di un acceso interesse –  e di lasciarlo decantare ridando voce ad avvenimenti, occasioni e atmosfere –  senza snaturare il suo oggetto ai propri fini. Ho trovato un piccolo libro delicato e in qualche modo gentile, raffinato nella grafica e nella impaginazione; piccolo, denso ed equilibrato.