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letteratura ceca

Fuks, “Il bruciacadaveri”

LADISLAV FUKS – “Il bruciacadaveri” – Einaudi

Ladislav Fuks è, per l’Italia, un regalo di Angelo Maria Ripellino, uno dei tanti (basterebbe ricordare le sue traduzioni di Pasternak, Belyj, Holan, Halas, Chlebnikov, la mitica antologia “Poesia russa del Novecento”…), probabilmente uno degli ultimi. E’ lui infatti che lo fa conoscere ai lettori italiani nel 1972 (Ripellino morirà nel 1978) con la pubblicazione presso l’Einaudi di questo romanzo (il secondo di Fuks, uscito a Praga nel 1967), affidandone la traduzione alla moglie Ela Hlochovà. Nello stesso anno esce in Italia, presso la Garzanti, “Una buffa triste vecchina” (il titolo originale, tradotto in italiano, sarebbe “I topi di Natalie Mooshabrova), uscito a Praga nel 1970, curato e tradotto da Serena Vitale; infine, nel 1997 esce in Italia, sempre presso l’Einaudi, il primo romanzo di Fuks, “Il signor Theodor Mundstock” (edito a Praga nel 1963), tradotto da Francesco Brignole. Mi risulta che la produzione letteraria di Fuks comprenda, oltre a quelli citati, altri tre romanzi (l’ultimo è del 1983) e due raccolte di racconti e mi auguro vivamente che esista qualche illuminato editore che voglia continuare l’opera meritoria iniziata da Ripellino, rendendoli disponibili ai lettori italiani, soprattutto a quelli innamorati della letteratura ceca (sarebbe anche necessaria una ristampa, perché attualmente risulta disponibile in libreria solo “Il signor Theodor Mundstock”, gli altri due, con un po’ di fortuna, si possono trovare al mercato dell’usato). Perché Fuks è un grande scrittore e il lettore se ne rende conto subito, già dagli incipit dei suoi romanzi, che possiedono l’accento di una voce energica, trainante e insieme straordinariamente scrupolosa nella sua capacità di dominare il ritmo del racconto.

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letteratura russa

Černyševskij, “Che fare?”

NIKOLAJ GAVRILOVIC CERNYSEVSKIJ – “Che fare?” – Garzanti

Černyševskij appartiene al gruppo degli intellettuali democratici russi che, nella seconda metà del 1800 a Pietroburgo, in contrasto con la politica riformatrice dello zar Alessandro II, si riuniscono intorno alla rivista “Il contemporaneo”, fondata da Puskin, ed iniziano a diffondere quelle idee liberali che aprono la via alla rivoluzione. Černyševskij, considerato il dirigente del movimento rivoluzionario, fonda nel 1861 a Pietroburgo la società segreta “Terra e libertà”, viene arrestato e recluso nella fortezza di Pietro e Paolo dove, fra il 1862 e il 1863, scrive il suo primo romanzo, “Che fare?”. Il romanzo nasce dunque con un intento chiaramente propagandistico, come romanzo a tesi, per sostenere, illustrare e diffondere quelle stesse idee per le quali il suo autore sta pagando con la prigionia. D’altra parte, Černyševskij considera la letteratura come uno strumento che può servire a risvegliare la coscienza del popolo russo, perché è proprio in essa che si concentra la vita intellettuale del suo paese. Essendoci un rapporto diretto fra la letteratura e la vita, quest’ultima può essere una forza che dirige lo sviluppo della vita collettiva.

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letteratura russa

Apuchtin, “L’archivio della contessa D**”

ALEKSEJ APUCHTIN – “L’archivio della contessa D**” – Sellerio

Partiamo dalla struttura, perché questo breve romanzo epistolare, scritto da Apuchtin nel 1890, colpisce subito il lettore per la sua “arguzia” compositiva: è costituito da cinquantaquattro missive (soprattutto lettere, ma anche telegrammi e biglietti) provenienti da nove mittenti diversi che, nello spazio di circa un anno, si rivolgono tutti ad un’unica destinataria, la contessa Ekaterina Aleksandrovna D., la quale risponde regolarmente a tutti, senza che il lettore abbia la possibilità di leggere le sue parole, che può solo intuire dal tono delle missive successive. Sì, perché questo libretto non è propriamente un epistolario, ma l’archivio segreto della contessa, nel quale la nobildonna custodisce sotto chiave la sua corrispondenza per evitare che, e ben presto il lettore ne scoprirà il motivo, occhi estranei possano accedervi. Un arguto stratagemma che contribuisce a ridare vita e vivacità ad un genere letterario noto e consolidato alla fine dell’Ottocento e, nello stesso tempo, a predisporre il lettore ad avvicinarsi con uno sguardo divertito alla società che rappresenta.

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letteratura polacca

Szczygiel, “Fatti il tuo paradiso”

MARIUSZ SZCZYGIEL – “Fatti il tuo paradiso” – nottetempo

“Negli inni del mondo si avanza, si incede, si marcia, si conquista e si impugna la bandiera. In quello ceco probabilmente si sta sdraiati a pancia in su. Del resto, cos’altro si può fare in paradiso?”

Mariusz Szczygiel è prima di tutto un giornalista e “Fatti il tuo paradiso” è un reportage, un libro inchiesta che si propone di fornire al lettore notizie, documentazioni e il quadro più chiaro possibile di una realtà geograficamente circoscritta, della cultura di un popolo e, soprattutto, di individuare e comunicare le ragioni di una passione: quella per gli abitanti della Repubblica Ceca. Un libro particolare quindi, che si muove lungo i confini della letteratura, dell’arte in generale, della cronaca, della documentazione storica; che si avvale di diversi mezzi espressivi, che spaziano dal puro articolo di cronaca alla intervista, da veri e propri elzeviri giornalistici alle inchieste di costume e che non si allontana mai del tutto, e queste sono le pagine che preferisco, dall’intento autobiografico, perché tutto il materiale di cui è costituito, è filtrato e illuminato dalla storia personale dell’autore e dalla sua passione per il mondo ceco. Un libro in un certo senso apparentato a “Vado a vedere se di là è meglio” di Cataluccio (che non a caso l’ha presentato in Italia), che appartiene alla stessa tipologia e, a tratti, ne condivide lo stile. Inevitabile, almeno per me, il confronto.

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letteratura russa

Jakobson, “Una generazione che ha dissipato i suoi poeti”

ROMAN JAKOBSON – “Una generazione che ha dissipato i suoi poeti” – SE

Voglio essere capito dal mio paese,
ma se non sarò capito, che fare?
Attraverserò il paese natale in disparte
come una pioggia obliqua d’estate.

Pasternak, nel suo libro autobiografico “Il salvacondotto”, dedica pagine commosse alla rievocazione del suicidio di Majakovskij, suo amico e coetaneo, e si pone come difensore della sua memoria e della sua opera di cui ben comprende l’immensità e l’unicità, proprio per evitare al poeta una seconda morte, provocata da una popolarità postuma programmata, fuorviante e strumentalizzante. “Una generazione che ha dissipato i suoi poeti” è una voce ulteriore che si leva a proteggere e a preservare la verità della vita e della poesia di Majakovskij. E’ ancora la voce di un amico, Roman Jakobson, e questo scritto costituisce una sorta di necrologio. E’ stato infatti composto il 5 giugno 1930, a poco più di un mese dal suicidio di Majakovskij (14 aprile 1930) e possiede un singolare valore perché trae ispirazione dalla commozione umana per la perdita di un amico e dalla profonda comprensione che deriva al suo autore dall’appartenere alla stessa generazione del poeta. Si tratta quindi della voce di un testimone che, in più, si avvale delle capacità intellettuali del grande linguista, in grado di dare una lettura sistematica e globale della poesia di Majakovskij. Vittorio Strada, nella bella Postfazione a questo scritto, informa il lettore che le pagine di Jakobson rappresentano il primo tentativo di considerazione letteraria globale di Majakovskij, un tentativo attuato con intelligenza amara e pacata, forse già consapevole che la Russia staliniana avrebbe cercato di ridurre il poeta ad una bandiera e di immiserire le cause del suo suicidio, imputandole ad un supposto ed insanabile conflitto interiore tra il poeta della propaganda e dell’ode epica e quello intimista della lirica e della poesia del cuore. Jakobson afferma, fin dalla prima pagina, che la poesia di Majakovskij è qualitativamente diversa da tutto quello che nel verso russo c’è stato prima di lui e che è la struttura stessa della sua poesia ad essere profondamente originale e rivoluzionaria.

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letteratura portoghese

Branquinho da Fonseca, “Il barone”

ANTONIO JOSE’ BRANQUINHO DA FONSECA – “Il Barone” – Sellerio

“Come un miraggio di conforto, di intimità, di benessere”

Una notte portoghese, il ritmo dolente e appassionato di un fado, la misura, perfetta nella gestione dei tempi del racconto che, però, non inquadra e contiene, ma allude, crea atmosfere, conduce il lettore solo all’imbocco di strade sconosciute. Un personaggio grottesco e folle, che tocca corde sensibili e turba con la sua ingenuità improvvisa e con la sua inaspettata liricità così suggestiva. Un racconto notturno, quindi, che si apre con l’entrata in scena di un oscuro, rozzo e mefistofelico uomo misterioso e che, dopo una notte di eccessi, musica e frantumati ricordi, si chiude con la dolcezza simbolica di una rosa bianca. In mezzo c’è tutto il tempo per rimpiangere l’amore, evocarlo, invocarlo, inventarlo, senza mai, e questo è geniale, raccontarlo.

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letteratura inglese

Stevenson, “Il saccheggiatore di relitti”

ROBERT LOUIS STEVENSON – “Il saccheggiatore di relitti – Newton

“Su di una zona della carta della nostra vita si stende una rosea bruma impenetrabile; ed è tutto quello che ci rimane”

Robert Louis Stevenson inizia a scrivere questo romanzo nel 1889, due anni dopo la pubblicazione di uno dei suoi libri più belli, “Lo strano caso del dottor Jekyll e Mr. Hyde”, quando, già da un anno, la sua vita ha preso la svolta definitiva e felice che gli permetterà di scrivere in una lettera ad uno dei suoi amici più cari: “Questo clima, questi viaggi, e l’apparire delle terre all’aurora; le nuove isole che spuntano dai banchi di nebbie mattutine; e nuovi approdi boscosi, e nuovi allarmi di temporali e risacche; tutta la storia della mia vita è per me più bella di qualsiasi poema”. Anni felici, trascorsi in un viaggio senza ritorno fino alle Isole Marchesi, a Tahiti, alle Hawaii, fino alle Isole Gilbert e Samoa, e meraviglia che si tratti in fondo di soli sei anni (Stevenson morirà nel 1894), come meraviglia che questo prolifico scrittore, morto a 44 anni, abbia potuto conoscere e amare in un tempo così breve tanti cieli e tante terre, percorrere tanto mare, scandagliare il fondo dell’animo umano e, soprattutto, che abbia potuto inventare e raccontare tante storie straordinarie. Credo che questo romanzo vada letto con la consapevolezza che il tema del doppio caratterizza tutta la produzione di Stevenson (tanto più dopo “Lo strano caso del dottor J. e Mr. H.”), che in lui qualsiasi materia psicologica si tramuta in una trama romanzesca, o meglio, genera una storia, e che, infine, l’ambientazione del romanzo, almeno nella sua parte centrale – che dà all’autore la possibilità di muoversi su un terreno per lui fortemente allusivo (il viaggio in mare, l’isola deserta, la ricerca di un carico prezioso nascosto all’interno di un relitto abbandonato) – costituisce un elemento catalizzatore delle dinamiche psicologiche, in grado di alleggerirle e di controllarne la drammaticità. Sono i punti di riferimento che mi hanno permesso di apprezzare un romanzo che altrimenti, rispetto alle opere più note di Stevenson, potrebbe sembrare eccessivamente dispersivo, forse addirittura troppo ambizioso nel suo tentativo di far confluire in un’unica vicenda romanzesca i ricordi della giovinezza parigina dell’autore, l’ambiente dei faccendieri dediti alla speculazione a San Francisco, le vicende legate al brigantaggio mercantile e, infine, il fascino delle isole del Pacifico, paradiso naturalistico ma anche luogo di costante tentazione per una società moralmente libera e priva di controllo.

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letteratura austriaca

Bernhard, “Piazza degli eroi”

THOMAS BERNHARD – “Piazza degli eroi” – Garzanti

Traduzione di Rolando Zorzi

Piazza degli eroi

“E’ tutto in via di estinzione”

Prima di tutto qualche data, per cogliere appieno l’importanza di “Piazza degli eroi” (“Heldenplatz”) all’interno della produzione teatrale, ma anche più genericamente letteraria, bernhardiana. L’opera viene pubblicata nel 1988 e rappresentata per la prima volta al Burgtheater di Vienna il 4 novembre dello stesso anno, per la regia di Claus Peymann. L’ultimo romanzo di Bernhard, “Estinzione” era stato pubblicato due anni prima, nel 1986. Il 12 febbraio 1989 Bernhard muore. Siamo quindi giunti con questo dramma alla conclusione della parabola teatrale del suo autore, ovvero, come ben sottolinea Eugenio Bernardi, al punto “massimo di quella provocazione cui mirava da sempre il suo teatro”. Esattamente come, sul piano della narrativa, “Estinzione” rappresenta il tentativo, attuato mediante le raffinate armi letterarie a cui questo autore ha abituato i suoi lettori, di cancellare, di estinguere, uno per uno, i temi portanti della sua architettura artistica. Bernhard conclude quindi portando al massimo grado possibile la sua arte della provocazione e della esagerazione, consapevole che, esagerando la realtà, può renderla insopportabile e, quindi, distruggerla. Ci si può chiedere se fosse consapevole dell’avvicinarsi della fine, ma la sua stessa biografia ci dice che Bernhard ha sempre vissuto sapendo di portare con sé la propria morte, di allevare dentro di sé la propria malattia mortale e quindi questa è, in definitiva, una domanda inutile.

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letteratura russa

Nabokov, “Lezioni di Letteratura”

VLADIMIR NABOKOV – “Lezioni di Letteratura” – Garzanti

A lezione da un maestro

Come si legge

“Quando si legge, bisogna cogliere e accarezzare i particolari. Non c’è niente di male nel chiarore lunare della generalizzazione, se viene dopo che si sono amorevolmente colte le solari inezie del libro. Se si parte invece da una generalizzazione preconfezionata, si comincia dalla parte sbagliata e ci si allontana dal libro prima ancora di aver cominciato a capirlo”.

Che cos’è l’opera d’arte

“Non dimentichiamo che l’opera d’arte è sempre la creazione di un mondo nuovo; per prima cosa, dovremmo quindi studiare questo mondo nuovo il più meticolosamente possibile, come se fosse qualcosa che avviciniamo per la prima volta e che non ha alcun rapporto immediato con i mondi che già conosciamo”.

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letteratura argentina

Bioy Casares, “Diario della Guerra al Maiale”

ADOLFO BIOY CASARES – “Diario della Guerra al Maiale” – Cavallo di Ferro

“Vidal pensò che nella vita arriva sicuramente un momento in cui una persona, qualunque cosa faccia, annoia soltanto. Resta allora solo un modo per recuperare il prestigio: morire”.

E’ un grande personaggio, don Isodoro Vidal, che a tratti mi ha ricordato i protagonisti di alcuni romanzi di Saramago. In questa folle e crudele guerra che i giovani conducono contro i vecchi, i “maiali” (“- Dicono che i vecchi – spiegò Arévalo – sono egoisti, materialisti, voraci, rognosi. Dei veri maiali.”), raccontata nella sua evoluzione, dalle prime incerte avvisaglie, al suo assurdo divampare, fino alla sua repentina e inspiegabile conclusione, nelle pagine del Diario, lui rappresenta uno dei protagonisti, ma anche l’osservatore, colui che, seppur implicato, prova a cercare un senso a ciò che avviene, a mantenere nel limite del possibile la distanza necessaria alla comprensione. E riempie lo spazio che faticosamente conquista tra sé e tutta la violenza gratuita che lo stringe sempre più da vicino, di ricordi, di tempo passato, di vita trascorsa, di riflessioni, che sono lampi improvvisi di sconsolata evidenza, di pacata e insieme acuta saggezza e anche, naturalmente, di disillusione (“L’accettazione delle proprie limitazioni può essere una triste saggezza”). Perché Casares in questo libro parla della vecchiaia, andando a cogliere il suo aspetto forse più inaccettabile: non tanto l’inevitabile avvicinarsi della morte, quanto il progressivo senso di estraneità nei confronti della vita. (“Vidal pensò che vivere è distrarsi”). Ma, ovviamente, ne parla nel modo che gli è congeniale, utilizzando l’invenzione, creando una trama fantastica e dando consistenza, spessore e visibilità alle sensazioni e alle paure che l’approssimarsi della fine della vita porta con sé.

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