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letteratura italiana

Marco Steiner, “Isole di ordinaria follia”

MARCO STEINER – Isole di ordinaria follia – Marcianum Press

La pioggia gialla

“Su quest’isola il vento e la rabbia hanno arato la terra con unghie sfibrate, hanno seminato note in un vuoto spartito,/ e la terra s’è mossa rotolando nel vento, ha raggiunto la riva, s’è infilata/ nel mare, s’è imbevuta di nuvole e sale, ha allungato alghe e radici per/ raggiungere e afferrare Venezia, perchè Venezia è l’utero delle storie di/ mare.”

Ci sono libri che nascono da una passione intelligente, dal desiderio di assecondarla, di nutrirla, di condurla ad esiti inaspettati e di lasciare che poi continui a percorrere la sua strada. In questo libro – che parla di follia, che si avvicina al buio spaventevole della follia, anzi, che ad esso aderisce penetrandolo – si avverte, decantata e modulata, la passione per il mare, per quella città sempre sognata e forse mai del tutto compresa nella sua inesauribile essenza che è Venezia, per le vite degli uomini spesso avviluppate intorno ad un nucleo doloroso, per il mondo circoscritto delle isole, luoghi conclusi serrati in se stessi, così affascinanti per qualsiasi immaginario letterario, per le tracce indelebili che la letteratura è in grado di incidere nella mente e nell’anima e, infine, per il viaggio, reale o metaforico che sia.

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letteratura austriaca

Bernhard – Otto riflessioni su altrettante opere

Samona

Ogni percorso di lettura ha una sua storia, che ammette infinite deviazioni, ma che presto o tardi individua, spesso con la chiarezza di una sorta di rivelazione, un punto di riferimento e ad esso si attiene, utilizzandolo come pietra di paragone. Il mio si è precisato e ha assunto una direzione più definitiva a partire dall’incontro con la letteratura austriaca del Novecento e, in particolare, con la prosa di Thomas Bernhard e con la poesia di Ingeborg Bachmann. Ne è nata una predilezione che ha in un certo senso determinato anche gran parte delle letture successive, perchè questi libri rappresentano quel tipo di letteratura che avverto come più rispondente ai miei bisogni di lettrice. Quello che mi attira è il rigore e l’intransigenza e anche, molto spesso, la sfida, che questi testi presuppongono. Qui nulla è concesso al lettore, nulla è pensato o scritto per attirare la benevolenza del lettore che deve conquistarsi il piacere della lettura, seguendo dinamiche del tutto nuove e abbandonando ogni propria aspettativa. Sono libri che molto spesso si rivelano ad una seconda lettura, anzi che la richiedono, perchè escono dai binari abituali, rifuggono da meccanismi narrativi consolidati e quindi spiazzano e costringono a navigare a vista. Ad una seconda lettura si scopre che sono avvincenti in un modo del tutto nuovo. Solitamente in un romanzo avvince la trama, il concatenarsi più o meno complesso e ben architettato di azioni, quella rete narrativa sulla quale si innestano considerazioni o eventi di altra natura. Nei testi bernhardiani l’evento è il pensiero, quello che avvince sono i movimenti del pensiero, articolati e protratti lungo traiettorie avventurose. L’azione, in genere scarna e secondaria, fa da supporto ad un pensiero che trova il modo di dipanarsi, di agire, di tornare su se stesso, assillante e sempre più esigente, teso verso il limite, verso ciò che raggiunge il limite del senso. E avventurosa è anche la forma attraverso la quale tutto ciò si realizza. Anzi, diventa assolutamente impossibile scindere ciò di cui il testo parla dalla forma in cui è espresso, perchè in nessun altro modo potrebbe essere detto, oppure in un altro modo perderebbe gran parte del suo significato e della sua suggestione. Si può parlare ovviamente di stile, talmente incisivo e direi affascinante che diventa nettamente percepibile anche dal lettore costretto ad utilizzare traduzioni, pur ottime, e a poter solo immaginare quale deve essere la sua forza in lingua originale. Nella prosa una sintassi insolita e avvolgente che all’inizio crea perplessità in chi cerca ciò a cui è abituato, che si prolunga senza apparente soluzione di continuità con le sue frasi che sembrano infinite, spezzate da incisi, dense di ripetizioni che in realtà contengono variazioni infinitesimali. Nella poesia, l’assoluta necessità di avvicinarsi a ciò che sembra indicibile, rifiutando tutto ciò che nel linguaggio non sembra più vero perchè ormai usurato, l’urgenza di trovare un lessico che abbia l’ardire, la forza e la freschezza di ciò che non è stato mai detto, forzando la natura stessa del linguaggio che soggiace al destino di non riuscire mai ad esprimere con esattezza ciò che la mente coglie come una folgorazione. Quindi una vera e propria esperienza di lettura, dalla quale ci si può allontanare, ma alla quale inevitabilmente si torna.

Nel numero dello scorso novembre, la rivista “Cadillac” ha pubblicato le mie riflessioni sui testi bernhardiani presenti nel blog.

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letteratura italiana

Carmelo Samonà, “Fratelli e tutta l’opera narrativa”

CARMELO SAMONÀ – Fratelli e tutta l’opera narrativa – Oscar Mondadori

Fratelli
“Immagini un angelo caduto,” – disse lentamente – “non per superbia, ma per un errore del caso. Conserverà la bellezza delle sue origini, la parola alata, i movimenti fatui; i suoi occhi nasconderanno un mistero, il suo corpo sarà fragile come un cristallo. Ma è un angelo caduto: dunque una creatura anomala, dolorosa e goffamente sublime. E’ umana? Certamente è composita, e dunque è anche umana, ma fra i propri simili rimarrà sola e sperduta e sarà punita e reietta.” (da “Casa Landau”)

Carmelo Samonà, riconosciuto come uno tra i maggiori studiosi di letteratura spagnola in ambito internazionale, pubblica il suo primo romanzo, “Fratelli”, all’età di circa cinquant’anni, nel 1978. Ad esso seguirà “Il custode”, nel 1983, e “Casa Landau”, pubblicato postumo nel 1990. I tre volumi risultano attualmente ancora reperibili, sia pur con qualche difficoltà, da chi voglia conoscere l’opera di un autore coltissimo e raffinato che ha fatto della letteratura per molti anni l’oggetto di uno studio appassionato, per trovare poi una propria voce, personalissima, evocativa e profondamente intensa, in grado di creare uno spazio letterario inedito. 

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letteratura svizzera

Robert Walser, “Commedia”

ROBERT WALSER – Commedia – Adelphi

Traduzione di Cesare De Marchi

La pioggia gialla

“Quando mi dissolverò, voglio urlare. Sarà un suono spaventoso echeggiante per milioni di valli e montagne. La notte piangerà. La terra ruoterà con più furia, e gli uomini si renderanno conto che i poeti non muoiono soli”.

Non vi è dubbio che per il lettore di Walser – per chi rimane felicemente stupito percorrendo le sue righe adamantine e suadenti nella loro apparente modestia, nella loro geniale ritrosia – resti sempre un po’ misterioso e in fondo insondabile il motivo di un apprezzamento che si rinnova nell’incontro con ogni nuova prosa dell’autore svizzero. Misterioso forse perchè nelle sue parole il perturbamento, il malessere sono occultati e disciolti in uno scanzonato rifiuto di mettersi in gioco nella lotta per un’esistenza compiuta e socialmente riconosciuta e apprezzata, in un irrefrenabile desiderio di chiamarsi fuori. C’è quindi qualcosa che sfugge, che spiazza, in questa altissima letteratura che sembra nutrirsi di tutte le apparenze del mondo, che sfiora l’invisibile o lo guarda da lontano, da un angolo appartato, che della resa fa la sua forza. Forse il lettore è destinato ad inseguire Walser nei suoi vagabondaggi, ad osservarlo mentre osserva, a condividere la sua smania che lo induce a camminare e a raccontare, cercando ogni volta, forse inutilmente, di raggiungerlo. 

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letteratura spagnola

Julio Llamazares, “La pioggia gialla”

JULIO LLAMAZARES – La pioggia gialla – Passigli Editori

Traduzione di Pier Luigi Crovetto

La pioggia gialla

“Come un fiume che di colpo ristagna, il corso della mia vita si era fermato e ora, davanti a me, si stendeva soltanto l’immenso e desolato paesaggio della morte e l’autunno senza fine dove dimorano insieme gli uomini, gli alberi disseccati e la pioggia gialla dell’oblio”.

“La pioggia gialla” è un libro impietoso che non concede al lettore soste, rifugi o nascondigli, se non nella sua stessa bellezza. E’ un libro che possiede radici penetranti e le ancora saldamente intorno alle paure più profonde che ogni uomo, più o meno consapevolmente, porta con sé nei suoi giorni. La morte, e ancor di più la solitudine estrema sono gli spettri che queste pagine rendono vivi ed evidenti, drammaticamente inevitabili, tragicamente vissuti come compagni inseparabili. Un libro che possiede parenti illustri che richiama alla memoria, e non solo per ambientazione o tipologia narrativa, quanto per le atmosfere dense, vibranti, che dalla desolazione sanno estrarre il succo di una bellezza disadorna ma anche accesa da un ultimo anelito di vita, quanto basta per evocare, inventare e condurre allo scioglimento castelli narrativi, che sorti dal nulla, al nulla riportano. Ma il tragitto lungo il quale giungono a compimento e la dilazione del tempo a loro concesso sono il terreno su cui la letteratura fiorisce.

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Philippe Jaccottet, “Austria”

PHILIPPE JACCOTTET – Austria – Bollati Boringhieri

Traduzione di Fabio Pusterla

Camminare

“Ah! Certo, non è una carta geografica piana che ci accingiamo a percorrere o a disegnare; bensì, piuttosto, a immagine delle montagne e delle foreste, un dedalo della profondità e dell’estensione, un monumento il cui centro si nasconde e i cui contorni sfuggono, incompiuto, mobile, una rovina forse, ma sontuosa, come la grande opera nella quale l’Austria ha potuto riassumersi grazie a Musil, quella commedia funebre, leggiadra, melanconica, senza inizio né fine: un monumento barocco”.

Esattamente vent’anni prima del “Danubio” di Claudio Magris, nel 1966, veniva edito in Francia questo libro, miracolosamente ancora reperibile senza difficoltà alcuna dal lettore italiano, che di “Danubio”, per ciò che concerne l’Austria, appare come un felice precursore. Apparentato all’opera di Magris, ma anche a “Praga magica” di Ripellino, a “Viaggio in Portogallo” di Saramago, e persino a “Lisbona” di Pessoa, a “Fondamenta degli incurabili” di Brodskij e a chissà quanti altri che non ho avuto ancora la fortuna di incontrare, questo agile ma densissimo volumetto fa parte di quella famiglia di libri che, sotto l’apparenza di guide turistiche, nascondono una ben più profonda anima che appunto dal turismo rifugge, non per snobismo intellettuale, ma per la necessità che li genera: quella di provare ad immergersi in una realtà che semplicemente non può essere né sfiorata né avvertita dall’atteggiamento consumistico e frettoloso che il turismo impone. Sono libri che si adattano molto meglio al viaggiatore, al viandante che non conosce l’ansia del possesso ingordo ed effimero, ma che va alla ricerca di qualcosa di più prezioso ed appagante, l’anima di un luogo, di una terra, di una città, sapendo che potrebbe anche non manifestarsi e che, in ogni caso, richiede come pegno il tempo, la pazienza, la disponibilità a tornare sui propri passi e persino a perdersi seguendo strade poco battute. L’andamento di questo libro “è apparentemente divagante, casuale, simile a quello di un viaggiatore che senza fretta attraversasse un territorio fatto di geografia, esseri umani e storia culturale, lasciandosi catturare dagli imprevisti, evitando le mete più ovvie e rinomate, cercando piuttosto ciò che sfugge, ciò che si nasconde, ciò che può rivelare un segreto”, così scrive nell’Introduzione al volume il traduttore Fabio Pusterla.

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letteratura americana letteratura italiana

Valerio Aiolli, “Il carteggio Bellosguardo. Henry James e Constance F. Woolson: frammenti di una storia”

VALERIO AIOLLI – Il carteggio Bellosguardo. Henry James e Constance F. Woolson: frammenti di una storia – Italo Svevo – Piccola Biblioteca di Letteratura Inutile

Camminare

“Nell’aprile 1880 Constance prese alloggio a Firenze, in qualcosa di molto simile a una camera con vista. Venne a sapere che anche Henry era in città. Lei lo considerava il più grande scrittore del suo tempo. Lo ammirava senza riserve. Desiderava ardentemente conoscerlo, e gli aveva già inviato diverse lettere in cui gli chiedeva un incontro. Lui non aveva mai detto di no. Gliene inviò un’altra”.

Ho scelto di leggere questo piccolo libro per devozione nei confronti di Henry James e per il titolo accattivante della collana di cui fa parte. In un mondo editoriale di annunci roboanti e di quarte di copertina che apparentano nuovi sconosciuti autori a giganti indiscussi della letteratura, ponendo salde basi per smentite e delusioni, l’inutilità, affermata con un pizzico di ironia, è senza dubbio una virtù. Come lo sono l’onestà intellettuale e la misura, quando si tratta di rendere conto, se non di una fascinazione, senza dubbio di un acceso interesse –  e di lasciarlo decantare ridando voce ad avvenimenti, occasioni e atmosfere –  senza snaturare il suo oggetto ai propri fini. Ho trovato un piccolo libro delicato e in qualche modo gentile, raffinato nella grafica e nella impaginazione; piccolo, denso ed equilibrato.

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letteratura russa

Iosif Brodskij, “Fuga da Bisanzio”

IOSIF BRODSKIJ – Fuga da Bisanzio – Adelphi

Traduzione di Gilberto Forti

Camminare

“L’arte non è un’esistenza migliore, ma è una esistenza alternativa; non è un tentativo di sfuggire alla realtà, ma il contrario, un tentativo di animarla. È uno spirito che cerca la carne ma trova le parole”.

Per chi ama un poeta ed ha acquisito la consuetudine di ripercorrerne i versi fino al punto di sentirli realmente propri per una sorta di conquistato riconoscimento, fino al punto di giungere ad una pur minima convinzione di essere entrati in sintonia con quella splendida costruzione di allusioni – e forse anche un poco di illusioni – che è la sua poesia, poter leggere le sue prose diventa la privilegiata esperienza di poter accedere attraverso una porta spalancata ad un intero mondo fatto di pensieri, ricordi, esperienze intellettuali ed emozionali, a quel substrato insomma da cui la parola poetica trae per vie insondabili il proprio nutrimento e la propria urgenza espressiva. Oppure di essere riusciti, anche se solo per un tratto, ad intravedere l’altra faccia di un mondo, quella che si esplicita mediante la linearità sintattica della prosa ma che tradisce comunque, per intensità, profondità, complessità, capacità di cogliere ed esplicitare nessi e ramificazioni, di suggestionare e trascinare il lettore, la vitalità rigenerante della poesia.

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letteratura tedesca

Helga M. Novak, “Finché arrivano lettere d’amore. Poesie 1956 – 2004”

Helga M. Novak – Finché arrivano lettere d’amore. Poesie 1956 – 2004 – Effigie

Traduzione di Paola Quadrelli

Camminare

“ma che pietra è mai questa/ che ho al collo/ non un ornamento/ questo è chiaro non un contrassegno/ eppure ho una pietra appesa/ al collo/ pesante abbastanza da incurvarmi/ per l’intera vita/ e però troppo leggera per/ scendere in acqua con lei/ il flauto del pifferaio magico/ galleggia più in alto”.

La casa editrice Effigie con la sua neonata collana “Le Meteore” ha offerto nel 2017 al lettore italiano la rara opportunità di conoscere due voci poetiche femminili della letteratura tedesca del secondo Novecento da noi del tutto sconosciute ai più, quella dell’austriaca Christine Lavant, attraverso la silloge poetica selezionata da Thomas Bernhard, e quella della tedesca Helga M. Novak, mediante il presente volumetto che comprende numerose e convincenti testimonianze di una vasta e variegata produzione lunga più di cinquant’anni. Una vita dunque, una biografia poetica che rende conto e lascia traccia di una vita interiore che accompagna i giorni e gli anni, come una sorta di musica di sottofondo, ma forse anche come una sorta di esistenza alternativa, se è vero che la poesia, come l’arte in genere, non sfugge la realtà ma la anima, “è uno spirito che cerca la carne ma trova le parole”, per usare una bellissima espressione di Iosif Brodskij.

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letteratura portoghese

António Lobo Antunes, “Non è mezzanotte chi vuole”

ANTÓNIO LOBO ANTUNES – Non è mezzanotte chi vuole – Feltrinelli

Traduzione di Vittoria Martinetto

Camminare

“Non mi ricordavo più che ci fossero così poche luci in questo posto salvo uno o due lampioni fra gli alberi, una o due lanterne sopra la porta d’ingresso e l’alone del mare, la casa buia, la strada buia, dopo il pozzo una tenebra di arbusti che rabbrividisce al vento e si riappacifica, non li vedo, so soltanto che esistono, mi muovo in questa casa perché la luna, quando le nubi si dimenticano di nasconderla, inventa pareti più grandi delle pareti del giorno che mi permettono di spostarmi fra di loro, chissà se è in questa casa che ho abitato o in un’altra inventata dalla luna, un bagliore sui vetri, un listello del pavimento, una cassa che si sono dimenticati con dentro posate e vestiti, dove mi trovo io, infatti, sembra che voci e non voci, presenze e non presenze e tuttavia il sospetto, in un angolo dell’anima, che abbiamo abitato qui…”

Pensare di giungere al limite estremo di sé, immaginare di giungere ad un passo dal non essere più, potrebbe sicuramente sembrare una cosa terribile, ma in fondo tanto definitiva da apparire semplice, semplice e, soprattutto, muta, senza echi, rimandi, ritorni, sussulti. Perché l’estinzione, quella vera e totale, chiude, taglia, elimina, dissolve nel non essere tutto ciò che è stato, per avventura, caso, capriccio della sorte e anche per coraggiosa determinazione. Che cosa succede quando la letteratura, questo gioco esigente ed impudente, si appropria anche di questo estremo limite e trova la sua linfa vitale lungo i passi che conducono un’anima verso il suo annientamento, lo dimostra questo intenso, e sorprendentemente vitalissimo, libro di Antunes. Che si appropria di tre giorni – gli ultimi tre giorni di una vita che finisce, per un più che fondato sospetto di esaurimento fisico, ma anche e soprattutto per difetto di senso, di un qualsiasi senso a cui aggrapparsi per proseguire – tre giorni nell’avanzato declinare di un’estate, e ne fa lo spazio entro cui distendersi e fiorire. Di quella fioritura unica e irripetibile di certe piante che impiegano una lunga vita per accompagnare la propria fine con la bellezza delle forme e del colore.

Qries