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Robert Walser, “Commedia”

ROBERT WALSER – Commedia – Adelphi

Traduzione di Cesare De Marchi

La pioggia gialla

“Quando mi dissolverò, voglio urlare. Sarà un suono spaventoso echeggiante per milioni di valli e montagne. La notte piangerà. La terra ruoterà con più furia, e gli uomini si renderanno conto che i poeti non muoiono soli”.

Non vi è dubbio che per il lettore di Walser – per chi rimane felicemente stupito percorrendo le sue righe adamantine e suadenti nella loro apparente modestia, nella loro geniale ritrosia – resti sempre un po’ misterioso e in fondo insondabile il motivo di un apprezzamento che si rinnova nell’incontro con ogni nuova prosa dell’autore svizzero. Misterioso forse perchè nelle sue parole il perturbamento, il malessere sono occultati e disciolti in uno scanzonato rifiuto di mettersi in gioco nella lotta per un’esistenza compiuta e socialmente riconosciuta e apprezzata, in un irrefrenabile desiderio di chiamarsi fuori. C’è quindi qualcosa che sfugge, che spiazza, in questa altissima letteratura che sembra nutrirsi di tutte le apparenze del mondo, che sfiora l’invisibile o lo guarda da lontano, da un angolo appartato, che della resa fa la sua forza. Forse il lettore è destinato ad inseguire Walser nei suoi vagabondaggi, ad osservarlo mentre osserva, a condividere la sua smania che lo induce a camminare e a raccontare, cercando ogni volta, forse inutilmente, di raggiungerlo. 

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Friedrich Dürrenmatt, “La visita della vecchia signora”

FRIEDRICH DÜRRENMATT – La visita della vecchia signora” –  Einaudi

 La visita della vecchia signora “Il tuo amore è morto molti anni fa. Il mio amore non ha potuto morire. Ma neanche vivere. E’ diventato qualcosa di malvagio come me stessa, come i pallidi funghi e i ciechi volti delle radici di questo bosco, soffocato dai miei miliardi d’oro. Che ti hanno afferrato coi loro tentacoli, per prendere la tua vita. Perché essa appartiene a me. In eterno. E ormai sei preso, sei perduto. Presto non resterà di te altro che nel mio ricordo un essere amato e morto, un mite fantasma in una forma spezzata”.

Claire Zachanassian, la vecchia signora, è una delle più potenti figure femminili di tutta la produzione teatrale, e forse anche narrativa, dell’autore svizzero e nessun lettore, o spettatore, può sfuggire al suo fascino perverso, come non può fare a meno di chiedersi per tutto il tempo dei tre atti durante i quali, presente o evocata o attesa, s’impone come indubbia protagonista, da che cosa esso derivi. Di fatto quello che intorno a lei sembra costruirsi con assoluta ineluttabilità e naturalezza è un meccanismo perverso e malvagio, una favola grottesca, una trama diabolica e paradossale. Durrenmatt è un grande provocatore, un disturbatore della quiete, malizioso e maligno, se si tratta di mettere a nudo l’ipocrisia e l’avidità che si annidano nel cuore dell’uomo e di smascherare la falsità della società perbenista. E qui lo fa con un’evidente felicità creativa baloccandosi con i tre generi teatrali fondamentali, servendosene a piene mani, contaminandoli, piegandoli al proprio estro, cosicché lo spettatore si trova progressivamente privato dei consueti punti di riferimento. Perché assiste ad una romantica storia d’amore rievocata e rivissuta, che si risolve nei toni cupi della più efferata vendetta, che si compie nei modi amari e grotteschi di uno scioglimento surreale.

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Gottfried Keller, “Tutte le novelle”

GOTTFRIED KELLER – Tutte le novelle – Adelphi

tutte-le-novelle-keller“Dopo cena, quando s’era fatto buio, scese all’approdo, noleggiò una barchetta e costeggiò la riva sin che giunse davanti a quei punti della spiaggia usati in parte dai carpentieri e in parte dagli scalpellini. Era una serata meravigliosa: un venticello tiepido increspava lievemente l’acqua, la luna piena ne illuminava le superfici lontane e faceva scintillare le brevi onde più vicine, mentre in cielo spiccavano nitide le costellazioni; le montagne coperte di neve si specchiavano come ombre pallide nel lago e si poteva piuttosto intuirle che vederle; spariva invece nell’ombra ogni sciocchezza industriosa, ogni inquieta meschinità architettonica, assorbita in grandi masse tranquille dalla luce lunare…”.

Leggere le novelle di Keller significa fare i conti con l’armonia, riconoscerla, vincere la resistenza iniziale che suscita – per sovrabbondanza di dolcezza, rettitudine, saggezza, quieta accettazione della sventura, laboriosa pazienza, umile fiducia in sé e negli altri – e lasciarsi condurre dalla sua onda calma, dalla prosa a lungo andare ipnotica che la sostiene, finché ci si accorge di essere penetrati in un mondo letterario tramontato ma non certo astruso, elaborato a partire da una architettura solidissima e capace di reggere infinite variazioni, un manufatto artigianale che lievita su se stesso assurgendo con apparente leggerezza all’evidenza dell’arte. Assuefarsi all’armonia richiede una resa e richiede tempo e costanza, e la disposizione da parte del lettore a lasciarsi coinvolgere dall’invenzione fantastica, dal gusto del grottesco, dall’acutezza nell’utilizzo del repertorio realistico e, soprattutto, dalla grazia, quella che solo nella fiaba trova la giusta atmosfera per declinarsi e risplendere in quell’altrove che prescinde da epoche o culture e che pesca nei territori dell’archetipo, sollecitando un inevitabile riconoscimento.

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Max Frisch, “L’uomo nell’Olocene”

MAX FRISCH – L’uomo nell’Olocene – Einaudi

l'uomo-nell'olocene“10.00. Pioggia come ragnatele sopra il terreno.

11.30. Pioggia come silenzio; non un uccello che cinguetti, in paese non un cane che abbai, i taciti rimbalzi in ogni pantano, le gocce in lenta scivolata lungo i fili.

13.00. Pioggia che non si vede, solo la si sente sulla pelle quando si sporge la mano dalla finestra.

17.30. Pioggia con vento che la fa schioccare contro i vetri delle finestre, fuori spruzzi sul tavolo di granito che è diventato nerastro, gli spruzzi come narcisi bianchi”.

Una scrittura trattenuta e purissima sostiene un romanzo che è in definitiva la cronaca di una dissoluzione, estrema, come può esserlo quella di una mente umana che, mentre il corpo è ancora tenacemente vivo, lo precede sulla strada che al nulla conduce. Dissoluzione, dimenticanza e perdita diventano nella penna straordinariamente felice di Frisch – straordinariamente a mio parere, chè non l’ho ritrovata tale in altri suoi scritti – materia viva di una mirabile costruzione narrativa. Percorrere la lenta discesa cosciente verso l’inconsapevolezza di sé usando la parola letteraria che per sua natura sollecita e crea ciò che fino ad un attimo prima non esisteva, non almeno a quella stessa intensità e con quella stessa necessità, è arte ardua e irta di pericoli perché troppo allettante è la tentazione di scadere nel patetico, di fare appello alla paura estrema della perdita di controllo su di sé e sulle proprie facoltà che è terrore supremo e da tutti condiviso, lettore ovviamente compreso. E invece Frisch si rivela in queste pagine maestro di rigore e di equilibrio, di delicatezza e dignità, procedendo con quella levità di superficie, pietosa e persino poetica nel dare valore a tutto ciò che la lenta dissolvenza ancora permette di cogliere del reale, ma trasparente nella sua capacità di convivere in ogni momento con la profondità del dramma umano di cui è chiamata a rendere conto.

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Adolf Muschg, “Almeno per cominciare”

ADOLF MUSCHG – Almeno per cominciare – Edizioni Controluce

“Non era successo niente, ma quando salì le scale, ebbe la certezza che tutto era finito, e capì che non c’era mai stato nulla. Fu un crollo immenso e tuttavia completamente silenzioso, incessante; non sentì neppure che stava precipitando. Ma ciò che si diffondeva attorno a lui era ormai solo l’eco beffarda e la fioca parvenza delle cose. Si ritrovò come risvegliato da uno sfinimento durato quarant’anni, ma per cosa? Non c’era più nulla.”

La solitudine non è certo un tema insolito per un autore contemporaneo, ma quella con cui fanno i conti i personaggi di Muschg possiede un’impronta che la rende inedita e, in seguito, riconoscibile. Perché la sua scrittura è come una macchina da presa, non certo asettica, ma a suo modo impietosa che nemmeno per un attimo abbandona l’inquadratura in primo, anzi in primissimo, piano sul protagonista, escludendo così altre presenze, altre esistenze, che divengono, seppur presenti, accessorie e, forse, funzionali. C’è una luce sospesa, la luce della ribalta, ad accendere ognuna di queste pagine e il lettore non può che attendere il sopraggiungere del momento estremo dell’assoluta sincerità di un’anima e seguirla, per un tratto, trascinato da una scrittura a tal punto concentrata e tesa che si permette di tralasciare, addirittura di dimenticare, la prevedibile necessità di una trama completa. I racconti di Muschg non sono mai lineari, ma procedono a piccoli passi, in un percorso concentrico –  fatto di progressivi avvicinamenti ed improvvise deviazioni – verso il cuore dolente di un fatto drammatico o addirittura tragico che, arrivati al dunque, per una sorta di estremo pudore, viene solo sfiorato o protetto dalle sue ripercussioni, dalla sua eco, quasi sempre imperitura.

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Muschg, “Storie d’amore”

ADOLF MUSCHG – “Storie d’amore” – Marcos y Marcos

Parafrasando il titolo di un famoso libro di Carver, mi chiedo: di cosa parla Muschg quando parla d’amore? Una domanda più che legittima, perché ho già potuto conoscere la scrittura di questo autore leggendo i nove racconti che costituiscono l’altro suo unico libro disponibile in traduzione italiana, la raccolta intitolata “L’impiccato”, e sono quindi consapevole che, come suggerisce Magris, chi incontra Muschg deve essere pronto a compiere insieme a lui “spedizioni in continenti inquietanti”, salti in nuove dimensioni, dove “assolutezza esistenziale” e “ambiguità fantastica” si legano in un nodo inestricabile. Bisogna quindi avvicinarsi con cautela a queste sette storie, definite da un titolo così inoffensivo, che appare addirittura un po’ ironico; inoffensivo e a suo modo tranquillizzante, perché allude a quella infinita serie e varietà di accadimenti e di situazioni di cui la vita e la letteratura rendono esperti o, comunque, consapevoli. Bene, nessuno di questi racconti parla di amore nel senso tradizionale del termine: sono perfette macchine narrative, taglienti e inospitali, prive di angoli in cui il lettore possa riposare cullato da una parvenza di riconoscimento. Sono pagine che interrogano e che provocano la necessità della rilettura, perché bisogna inoltrarsi almeno una seconda volta in un terreno sconosciuto per iniziare, se non a comprenderne tutti gli aspetti, almeno a coglierne la bellezza. Sono sette racconti magnifici e il fatto che siano stati scritti circa vent’anni prima de “L’impiccato” la dice lunga sulla grandezza di questo autore, considerato a ragione l’erede di Durrenmatt e di Frisch.

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Frisch, “Homo Faber”

MAX FRISCH – “Homo faber” – Feltrinelli

Avrei voluto trovare in questo romanzo una trama fragile come un velo, una sorta di sentiero appena tracciato che si percorre consapevoli che ad ogni svolta si può correre il rischio di perdersi. Forse la parola rischio è la più adatta ad esprimere ciò che avrei voluto trovare. Mi ha disturbato nella lettura di questo romanzo il suo intreccio complesso e ben strutturato. Mi ha disturbato proprio ciò che in un altro contesto potrebbe essere un pregio. Ma ogni libro è necessario a modo suo, o non lo è.

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Loetscher, “L’ispettore delle fogne”

HUGO LOETSCHER – “L’ispettore delle fogne” – Casagrande

“L’occhio clinico delle fogne”

Nella galassia della letteratura mitteleuropea, Loetscher è l’ultima stella della costellazione svizzera che comincia a comporsi nella mia libreria. Li ho incontrati in ordine sparso, ma tutti hanno lasciato un segno, ognuno a suo modo. Gottfried Keller, Robert Walser, Max Frisch, Friedrich Durrenmatt, Ugo Loetscher, Adolf Muschg. Mi riprometto di tenerli d’occhio, cerco di seguire le loro strade, che a volte si incrociano, a volte conducono in luoghi molto lontani. Per quanto ne so, questo è l’unico romanzo di Loetscher tradotto in italiano. L’ispettore delle fogne è un personaggio eloquente, nel vero senso della parola, un personaggio che si impone per la sua eloquenza. Ci si aspetta di trovare un omiciattolo remissivo e solitario che sceglie di vivere nascosto nelle condutture ad occuparsi di acque di scolo perchè non ha il coraggio di affrontare la vita in superficie. Invece l’ispettore, in questo suo lunghissimo discordo, in questa sua relazione sulle fogne, ci dà una lezione di senso, ci espone la filosofia delle acque di scolo, ci illumina con la sua competenza e intanto parla di sè e della sua vita, dei tanti strampalati personaggi che ha incontrato svolgendo un lavoro di cui è giustamente orgoglioso.

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Keller, “Romeo e Giulietta nel villaggio”

GOTTFRIED KELLER – “Romeo e Giulietta nel villaggio” – Marsilio

“Il fiume scorreva ora tra cupi e alti boschi, che lo coprivano d’ombra, ora per l’aperta campagna, sfiorava villaggi addormentati e casolari isolati; a tratti rallentava il suo corso e nelle sue acque, simili a un calmo lago, la barca quasi si fermava, e di nuovo scorreva veloce tra alte rocce, lasciandosi dietro le silenziose sponde; e quando sorse l’aurora, dalle acque d’argento emerse una città con le sue torri. La luna calante, rossa come oro, disegnava una scia luminosa in mezzo al fiume, e su questa scia scese la barca, attraversandola lentamente, e mentre si avvicinava alla città, nell’aria gelida del mattino autunnale, due pallide figure, strettamente abbracciate, si lasciarono cadere da quella massa scura nelle fredde acque.”

 Walter Benjamin ritiene la prosa di Keller una delle più belle mai scritte in lingua tedesca e “Romeo e Giulietta nel villaggio” una novella immortale.

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Muschg, “L’impiccato”

ADOLF MUSCHG – “L’impiccato” – Dadò

“Senza storie e senza raccontare storie non si può vivere, ma le storie sono bugie.” (Claudio Magris)

“…come se la fine di tutte le cose avesse fatto capolino e ridendo gli fosse passata accanto.”

Nove racconti precisi e taglienti, nove perfette macchine narrative nella migliore tradizione della letteratura mitteleuropea. Un autore che (ancora una volta) non avrei mai incontrato senza i suggerimenti di lettura convincenti e autorevoli di Magris. Per Muschg, considerato l’erede di Durrenmatt e di Frisch, “la letteratura è una ricerca sulla misura della capacità di sopportare la propria forma di vita”, il tentativo di “trovare delle chiare domande e poi di trovare, per queste domande, una chiara forma”. Quello che il lettore coglie è intensità, passione e smarrimento.