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letteratura italiana

ANGELO MARIA RIPELLINO, “Notizie dal diluvio. Sinfonietta. Lo splendido violino verde”, Einaudi

A cura di Alessandro Fo, Federico Lenzi, Antonio Pane, Claudio Vela

“Non c’è divario tra i miei saggi, i miei racconti, le mie liriche: allo stesso modo diramano le loro radici nell’humus del teatro, della finzione pittorica, allo stesso modo ricorrono alle duplicazioni e ai camuffamenti. Un’ebbra molteplicità di rimandi e reminiscenze ricerca e nutre il tessuto della mia scrittura: ombre jiddisch, immagini di Klee e di Magritte, motivi di Mahler e di Janáček, splendori barocchi, truculenze boeme, vampate di zolfo vi convergono come in un gran Baraccone dalle luci malate, scontorto da smorfie di clownerie, sconquassato da raffiche di ipocondria e di rimpianti.”

Così scrive Ripellino nel testo “Di me, delle mie sinfoniette”, riportato in Appendice al presente volume, confermando il sospetto che coglie i suoi lettori, abituati a ritrovare sempre nei suoi scritti, anche se di vario genere, la stessa esuberanza lessicale e originalità di pensiero che li rendono vivi, luminosi e toccati da una sorta di grazia. Esuberanza e originalità che ovviamente esplodono nella poesia, nel luogo in cui – ed è sempre l’autore ad affermarlo – si difende “la sempre insidiata libertà dell’uomo”. Le sue parole “tangibili come oggetti” sono al servizio di un pensiero che gioca, si camuffa, si diverte a costruire trabocchetti e castelli di illusioni fantastiche, ma che pure sosta sempre lì, sull’orlo di un abisso. La poesia di Ripellino è la lacrima disegnata sulla maschera di un clown. Ma è anche “il cuore e la fonte di ogni sua attività letteraria”, come afferma Alessandro Fo nell’introduzione al volume, perché per lui la poesia è “una manifestazione prepotentemente vitale, che ha il compito di lenire e contrastare il dolore e, a un più alto e decisivo livello di scontro, tenere a bada la morte”.

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letteratura norvegese

JON FOSSE, “Melancholia”, Fandango libri

Traduzione e Postfazione di Cristina Falcinella

“[..] era un mattino piovoso a Oslo e Vidme entrò nelle sale della Galleria Nazionale e poi notò un dipinto che lo attirava e poi ecco Vidme lì in piedi a guardare un dipinto del pittore Lars Hertervig, s’intitola “Dall’isola di Borg” e lo scrittore Vidme rimase in piedi davanti a quel quadro, un giorno, verso la fine degli anni Ottanta, lo scrittore Vidme rimase in piedi davanti a un quadro del pittore Lars Hertervig e proprio in quell’occasione, un pomeriggio di pioggia a Oslo, Vidme ebbe l’esperienza più forte della sua vita. Sì, lui l’ha vissuta così. L’esperienza più forte della sua vita. E se dovesse fare un commento su come fu, non saprebbe fare di meglio che dire che gli si sollevò la pelle e gli vennero le lacrime agli occhi.”

Nel 2009 Fandango libri pubblica in Italia “Melancholia” di Jon Fosse, lo scrittore e drammaturgo norvegese insignito nel 2023 del Premio Nobel per la Letteratura, a riprova della lungimiranza delle piccole case editrici e della loro capacità di far conoscere ai lettori italiani autori di pregio del panorama internazionale. Ora i romanzi maggiori di Fosse si possono trovare facilmente, pubblicati da La nave di Teseo, e alcune delle sue opere teatrali più importanti – molte delle quali sono state rappresentate anche in Italia – sono state pubblicate già nel 2006 nella raccolta “Teatro” da Editoria & Spettacolo. Per la poesia si dovrà aspettare, ma non credo molto, data la notorietà che il Nobel ha, meritatamente, regalato a Fosse anche nel nostro paese. 

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letteratura tedesca

FRANZ ZEISE, “L’Armada”, Sellerio

Traduzione di Anita Rho

Introduzione di Leonardo Sciascia

“Ed ecco, in quegli anni si moltiplicarono i segni miracolosi. Da tutti i punti cardinali si annunziavano e accadevano cose inaudite. Così si udì raccontare che montagne alte fino alle nuvole s’incendiavano improvvisamente e la loro cenere, simile a neve oscura, si spargeva per intere province. A volte nel turbine delle bufere cadevano a terra fiori variopinti come pietre preziose, che parevano stelle di corallo, farfalle morte o forse spoglie di aracnidi, ma talvolta anche, nella loro tumultuosa sontuosità di colori, nella loro velenosa dolcezza, facevano pensare a misteriosi ceffi ghignanti. Non di rado nuvole di un nero violetto, turgide come lampioni, si addensavano sulle città. Quando si laceravano, gli abiti della gente diventavano rossi come vesti di carnefici o di re, e le strade sembravano irrorate di sangue. Si parlava anche di creature favolose uscite dai mari o dalle selve, di mansueti taumaturghi e di minacciosi profeti.”

Il romanzo “L’Armada” è uno splendido e affascinante affresco, denso di ombre così come lo è stata la vita stessa del suo autore –  e, soprattutto, la sua fine – l’uno e l’altra minacciate oggi da un ingiusto oblio. E’ storia, sogno, incubo e passione rielaborati da una mente geniale forse già destinata a patire i sintomi premonitori di quella demenza che la colpirà alla fine. Due grandi voci contribuiscono a mantenerne viva la memoria e a convincere i lettori della necessità della sua riscoperta: quella di Leonardo Sciascia, autore della bella e precisa introduzione alla edizione Sellerio e quella di Italo Alighiero Chiusano che recensisce il romanzo, scegliendo come titolo “Ogni armada è un’accolita di morti” (testo che si può trovare nel volume “Literatur. Scrittori e libri tedeschi”).

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letteratura francese

ALBERT CAMUS, “Taccuini”, Bompiani

Introduzione di Silvio Perrella

Prefazione di Roger Grenier

Traduzione di Ettore Capriolo

“Di notte, la luna rende bianche le dune. Poco prima, la sera aveva accentuato tutti i colori, rendendoli più violenti. Il mare è blu oltremare, la strada rossa, il sangue cagliato, la spiaggia gialla. Tutto scompare col sole verde e le dune grondano luna. Notti di felicità smisurata sotto una pioggia di stelle. Ciò che si stringe a sé è un corpo o la notte tiepida? E quella notte di tempesta in cui i lampi correvano lungo le dune, impallidivano, immettevano nella sabbia e negli occhi bagliori aranciati o biancastri. Sono nozze indimenticabili. Poter scrivere: sono stato felice per otto giorni di seguito.”

Si prova sempre un lieve imbarazzo quando ci si accinge a leggere la scrittura privata di un autore che, quando era in vita, non aveva nessuna intenzione di farla conoscere a degli estranei e tanto meno di pubblicarla. Lieve ma transitorio, soprattutto quando, come in questo caso, l’imbarazzo cede ben presto il posto all’ammirazione e direi quasi all’entusiasmo per la possibilità che queste pagine offrono di avvicinarsi maggiormente ad un autore che tanto si è amato grazie ai suoi bellissimi libri – romanzi e saggi – e alle sue opere teatrali. Sia ben chiaro, i “Taccuini” non sono veri e propri diari, non aprono uno spiraglio, se non per vaghi accenni, sulla vita privata del loro autore, sulle vicende quotidiane della sua esistenza, non offrono spunti per nutrire quella curiosità che spesso ci rende indebitamente interessati alla vita privata degli altri, soprattutto se questi “altri” sono persone fuori dal comune.

I “Taccuini” non sono diari, ma qualcosa di più, sono la possibilità rara che viene offerta al lettore di entrare in contatto con quella intimità tanto più profonda e personale che è il pensiero, con ciò che non è esplicitamente la vita dell’autore, ma che la accompagna giorno dopo giorno come una musica di sottofondo, che si avverte solo quando tutto il resto tace. Una scrittura per lui necessaria, visto che l’ha accompagnato per ventiquattro anni, dal 1935 fino alla morte, necessaria probabilmente quanto quella da cui sono nate le sue opere che con essa hanno un legame non privo di importanza. 

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letteratura italiana

MICHELE MARI, “La stiva e l’abisso”, Einaudi

“.. finchè navigo voglio solo navigare, essere una cosa sola con il fasciame e l’alberatura velata, vibrare come una gomena tesa, impregnarmi di mare come le vele di fiocco, quando le onde son prese di punta e la schiuma sormonta il bompresso, sì, voglio essere pura voce imperiosa, ‘Molla tutto!’, ‘Inverti la barra!’, puro flatus nell’orror tenebroso della tempesta, fatto della stessa sostanza degli schiocchi dei paranchi e del rimbombante muggito del mare…”

Tutti, credo, abbiamo iniziato a leggere per soddisfare un bisogno di avventura, che andasse oltre a quella che i giorni ci riservavano o che da soli avremmo potuto immaginare, desiderare o temere. Ce ne siamo nutriti e appassionati fino a che l’avventura è diventata una metafora della vita e abbiamo continuato a cercarla nei libri, a svelare i suoi camuffamenti, ad individuare le sue diverse facce, scoprendo che poteva travalicare le trame, liberarsi dai loro lacci, annidarsi nelle parole, nelle loro forme e strutture, diventando così inesauribile e inimmaginabile. Gli scrittori veri sono legati a doppio filo con l’avventura della parola, di tutte le sue forme e sfumature, del loro modo di ricreare ogni volta il mondo, sono degli avventurieri e leggerli significa seguirli, inoltrarsi con loro verso l’ignoto, spesso senza punti di riferimento. Si può fingere che sia solo un gioco, ma nessun trastullo o passatempo ha a che fare con il nostro bisogno di conoscenza o, come dice Stig Dagerman, nel titolo del suo bellissimo libro, di consolazione.

In questo senso Michele Mari è il principe degli avventurieri, non solo perchè ha riempito la sua letteratura di quello che fin dalle sue origini di lettore lo aveva entusiasmato e tenuto avvinto alle pagine, ma anche e soprattutto perchè ha trasfigurato tutto ciò contaminandolo con quel mondo delle lettere di cui è un inesausto esploratore, l’ha contaminato con tutti gli espedienti che la retorica gli mette a disposizione, ha forzato la lingua obbligandola ad utilizzare parole ed espressioni desuete ma piene di fascino e di molteplicità di significati. Ha riempito le sue pagine di labirinti in cui ci si inoltra pieni di incertezza e di stupore, di dubbi interpretativi, di reminiscenze e di consonanze, afferrando frammenti affascinanti e perdendo, quando si crede di averlo compreso, il senso dell’insieme, per poi ritrovarlo, ipotizzare, costretti a ritornare su pagine già lette e riscoprire così la loro bellezza.

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letteratura polacca

ANDRZEJ KUŚNIEWICZ, “Lezione di lingua morta”, Sellerio

Traduzione di Alberto Zoina

 

A Matków c’è un vasto palazzo, massiccio, basso, deserto; assi inchiodate alle finestre, saloni bui, nessun mobile o quasi, solo qualche sventrata anticaglia del secolo scorso, una credenza senza sportelli, delle poltrone senza cuscini, il vuoto; e dunque un lupo può insinuarsi tra i battenti socchiusi del portone o dalla porta delle cucine, o magari saltar dentro da una finestra bassa e annusare in giro come un cane randagio, per accucciarsi infine col muso nella coda soffice e addormentarsi, mentre fuori il gelo si accanisce spaccando i tronchi dei faggi e facendo gemere gli abeti, oppure s’alza una bufera di neve che nasconde ogni cosa e crea l’illusione che non ci siano più montagne, ma solo un’interminabile, bianca pianura di fiocchi turbinanti su cui vaga in diagonale una spaventosa luna piena, cui solo il gufo osa mostrarsi, battendo le ali lassù tra le tegole o sotto il cadente tetto di travi del palazzo di Matków.”

Si deve alla casa editrice Sellerio, all’inizio degli anni Ottanta, la pubblicazione in traduzione italiana di due bellissimi libri di Andrzej Kuśniewicz, autore nato in Galizia nel 1904, quando questa terra faceva ancora parte dell’Impero asburgico. Si tratta de “Il Re delle due Sicilie” e di “Lezione di lingua morta”, opere che meritano di essere maggiormente conosciute dai lettori italiani e che sarebbe un vero delitto se finissero per essere dimenticate. La prima è considerata, probabilmente a ragione, il vero capolavoro dell’autore polacco, per ampiezza, complessità e innovazione strutturale; la seconda, forse meno appariscente, costituisce però un piccolo gioiello, denso delle atmosfere crepuscolari e nostalgiche di quel mito absburgico che, come insegna Magris, ha dato vita a tanta grande letteratura. 

Anche Kuśniewicz, infatti, si muove all’interno della luce attutita e incerta del crepuscolo di un mondo che già intravede la sua fine. Una luce che illumina forse per l’ultima volta tutto ciò che l’ha reso grande. Cantare la decadenza, percorrerla e indugiare in essa sembra essere propizio per la nascita di opere letterarie che non nascono da uno sguardo diretto, bensì dalla memoria di ciò che il tempo e la storia hanno reso prezioso, per l’illusione dell’ordine e della sicurezza di una civiltà che appariva inalterabile. Un tempo prezioso perché irripetibile, come la giovinezza del protagonista di “Lezione di lingua morta” e del suo stesso autore.

In queste pagine, tali atmosfere risultano amplificate e rese caratteristiche dalla loro marginalità, sia cronologica – l’autore, che si è nutrito di cultura mitteleuropea, è comunque soggetto anche a nuove influenze letterarie – sia territoriale. Il romanzo è infatti ambientato durante gli ultimi mesi della Prima guerra mondiale in quella Galizia orientale che, ai margini dell’Impero ormai vacillante, ne avverte tutta la grandezza come l’eco di una voce lontana e morente.

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letteratura italiana

ANNA MARIA ORTESE, “L’infanta sepolta”, Adelphi

Cura e Postfazione (“Pavana per un’infanta”) di Monica Farnetti

Notizia bibliografica di Giuseppe Iannaccone

“Può darsi che tutte queste non fossero che fantasticherie, torbide supposizioni di un cuore che, ieri come oggi, è portato a vedere dovunque dei prigionieri, a riconoscere in ogni albero un carcere di spiriti ardenti, in ogni sasso una cella infame, dove qualcuno arde e si  lamenta.”

Più si legge la Ortese e più ci si rende conto che è impossibile penetrare fino in fondo al fascino misterioso che tiene avvinti alle sue pagine, che è impossibile raggiungere il centro, il cuore profondo che le ha generate. Ogni suo libro appare al lettore come quello definitivo, quello che racchiude i lineamenti di uno spirito così complesso che, per non soccombere agli infiniti impulsi che lo sollecitano, sembra avere l’impellente bisogno di riversarsi e di rivelarsi attraverso un linguaggio ardito, evocativo, coloratissimo e capace di generare con la sua sola forza immagini inverosimili e di renderle plausibili, di dare vita a narrazioni là dove persino la sola immaginazione si arrenderebbe.

Ma poi la selvaggia malinconia, l’irriducibile struggimento che guidano la penna di questa grande scrittrice danno vita ancora e ancora a nuove avventure letterarie, perché tali sono le meravigliose architetture che reggono romanzi come “L’iguana”, “Il cardillo addolorato”, “Alonso e i visionari”, “Il porto di Toledo” e ogni volta si scoprono riconferme, si avvertono i segni di un clima noto, ma ogni volta la meraviglia è anche avvinta da qualcosa di diverso, arioso ed enigmatico, che genera dapprima sconcerto e poi ammirazione per una creatività che sa rinnovarsi e crescere su se stessa intorno al nucleo spirituale di un’anima che sfugge e si nasconde. “Nessuno scrittore ha insegnato alla Ortese questa callida acredine del discorrere, quella volatile furia e insieme quella macerazione labirintica che danno, fin dalle prime pagine, una letizia aspra, inquieta, insonne e insieme allucinatoria”, scrive Giorgio Manganelli. Ed è con i racconti giovanili che tale nucleo inizia a delinearsi, con quelli inseriti nelle sue due prime raccolte, “Angelici dolori” e “L’infanta sepolta”, vero e proprio laboratorio di quel misterioso vaneggiare intorno a immagini incantate che sarà cifra e conferma della maturità dell’autrice.

Monica Farnetti nella Postfazione alla presente edizione, dal bellissimo titolo “Pavana per un’infanta”, suddivide i diciassette racconti de “L’infanta sepolta” in tre gruppi, partizioni ovviamente affatto rigorose data la natura di una ispirazione letteraria che tende a sfuggire alle categorizzazioni, a indulgere a virate improvvise e a contaminare temi e generi: “.. la prima [è riservata] a miraggi, contemplazioni estatiche e apparizioni angeliche, la seconda a situazioni autobiografiche, infantili e non, spesso in varia accezione alterate, direbbe lei, dal rumore del mare [..], l’ultima a vedute, tipi e tradizioni di Napoli – non senza che tratti caratteristici di una sezione slittino in un’altra, e viceversa, scompigliandone il disegno complessivo”.

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letteratura austriaca

JOSEF WINKLER, “Natura morta”, Forum

Traduzione, cura e postfazione di Luigi Reitani

“Nella parte antica del Campo Verano, tra sarcofaghi monumentali in ferro e statue di angeli segnate dalle intemperie e ricoperte di muschio che reggevano fiaccole funebri, in camicia a mezze maniche e con un mazzo di ginestre rosse, grasso e confuso, si aggirava Frocio, miagolando e mormorando incessantemente <Buona notte, anima mia!>.”

Luigi Reitani, curatore della collana “oltre” delle edizioni “Forum”, regala ai lettori con questo libro, da lui tradotto e definito “novella romana”, la prima versione italiana di un’opera di Josef Winkler, lo scrittore austriaco originario della Carinzia che continua la grande tradizione letteraria di questa terra – che ha dato i natali a Robert Musil, Christine Lavant, Ingeborg Bachmann e Peter Handke – scegliendola anche come motivo ispiratore di una trilogia per ora non disponibile nella nostra lingua. Reitani arricchisce il volume con una postfazione che è in realtà un breve saggio ricchissimo di informazioni, richiami e suggestioni letterarie, dal titolo “La morte a Roma”.

Quella di Winkler è un’incursione, anzi una vera e propria immersione, in un aspetto grottesco e deleterio di una certa romanità, così come appare ai suoi occhi di straniero e di scrittore – romanità scelta probabilmente come esempio concreto e calzante di una ben più vasta umanità – un suo aspetto letterariamente inedito che l’autore sceglie appositamente per amplificarlo, stravolgerlo e deformarlo, portarlo al grado più basso della sua mera carnalità per farlo poi assurgere ad una inedita ed imprevista purezza di spirito. Il romanzo è costituito da affollate pagine descrittive attraverso le quali si va dipanando e componendo un esile filo narrativo che a sua volta si può leggere come una sorta di elegia romana nata dal fango: più la prosa è cruda, infatti, e più sorprendente e delicata è la poesia che ne scaturisce. La scrittura di Winkler trae spunto ed ambientazione da un’attenta e profonda osservazione di merci, persone, atmosfere che animano il mercato romano di piazza Vittorio Emanuele, uno dei più suggestivi mercati storici della capitale, colto e quasi fotografato in una giornata d’estate del 1992.

La natura morta del titolo costituisce un filo conduttore che permette al lettore di comprendere sia la struttura dell’opera che la sua natura allegorica, e di orientarsi quindi, percependo il sottile trapasso tra il disgusto e la pietà, tra la volgarità e la dignità a cui queste pagine lo conducono. “Nella tradizione figurativa”, scrive Reitani, “una natura morta è un dipinto che ritrae fedelmente degli oggetti inanimati, in particolare un insieme di elementi del mondo vegetale e animale, talvolta frammisti a utensili o ad altri artefatti, disposti senza un ordine preciso, spesso sul piano di un tavolo: composizioni di fiori o di frutta intorno a cui si aggirano insetti; vivande, in parte già consumate, come pesci, pane o vino; singoli frutti sparsi accanto a libri o strumenti musicali”. E in effetti i sei capitoli che compongono il libro possono essere considerati come dei quadri statici che in una immaginaria galleria rappresentano la vita del mercato: come nelle nature morte i pittori indulgono spesso e volentieri a rappresentare animali squartati e frutta marcia, così la prosa di Winkler, nel suo virtuosistico esercizio descrittivo, insiste ad accumulare particolari ripugnanti, con una frequenza sospetta e certo indicativa di una sua funzionalità letteraria, quella che Reitani definisce “estetica del brutto”. 

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letteratura francese

GEORGES PEREC, “La vita istruzioni per l’uso”, BUR

Traduzione di Dianella Selvatico Estense

“Le scale per lui, a ogni piano, erano un ricordo, un’emozione, qualcosa d’antico e impalpabile, qualcosa che palpitava chissà dove, alla fiamma vacillante della memoria: un gesto, un profumo, un rumore, un luccichio, una giovane donna che cantava arie d’opera accompagnandosi al piano, un ticchettio maldestro di macchine per scrivere, un odore tenace di cresile, un clamore, un grido, un frastuono, un fruscio di sete e di pellicce, un miagolio lamentoso dietro una porta, dei colpi contro le pareti, dei tanghi suonati e risuonati su fonografi sibilanti o, al sesto a destra, il ronzio ostinato della sega a due tempi di Gaspard Winckler cui, tre piani più in basso, al terzo a sinistra, rispondeva ormai solo un silenzio insopportabile.”

Abitare in una vecchia casa significa chiedersi spesso chi abbia già vissuto, gioito e sofferto nel passato – in uno dei tanti passati che qui si sono susseguiti – tra le sue mura, quali storie si siano consumate nelle sue stanze, quali voci e quali silenzi siano qui risuonati, o addirittura quali mobili e oggetti abbiano lasciato nel tempo le loro impronte, tempo ben più lungo di quello concesso ai loro proprietari, perchè gli oggetti inanimati sopravvivono a chi li possiede, le scale a chi le percorre, le finestre a chi vi si affaccia, come del resto il cielo agli occhi che osservano il cammino delle nuvole. Questo nella vita, che è un tassello immemore impossibilitato a cogliere il disegno complessivo che spazi e tempi compongono nel loro divenire e nel loro trasfigurarsi, impossibilitato a cogliere se non minimi e provvisori mutamenti, a seguire e a decifrare poche e labili tracce, pochi e labili lacerti di storie. Tutto il resto lo può fare la letteratura se si pone un obiettivo nel contempo ambizioso, arduo e agli occhi dei più forse incomprensibile nella sua apparente inutilità, se non fosse che nel perseguirlo crea pagine di assoluta grandezza che vanno ben al di là di ciò che inizialmente il lettore può cogliere dell’intento che ha mosso e motivato la scrittura del loro autore.

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letteratura italiana

GIORGIO MANGANELLI, “Centuria. Cento piccoli romanzi fiume”, Adelphi

Introduzione di Italo Calvino

Nota al testo di Paola Italia

“Libriccino sterminato, insomma; a leggere il quale il lettore dovrà porre in opera le astuzie che già conosce, e forse altre apprenderne: giochi di luce che consentono di leggere tra le righe, sotto le righe, tra le due facce di un foglio, nei luoghi ove si appartano capitoli elegantemente scabrosi, pagine di nobile efferatezza, e dignitoso esibizionismo, lì depositate per vereconda pietà di infanti e canuti.”

Primo e unico libro di narrativa di Manganelli, definito a ragione da Paola Italia, nella ricca Nota al testo, un “coacervo di materiali narrativi”, “Centuria”, che si compone, come dice il sottotitolo, di “cento piccoli romanzi fiume”, è considerato dallo stesso autore “una vasta ed amena biblioteca” e, a prima vista, appare al lettore anomalo rispetto al resto della sua vasta produzione. Perché in queste pagine Manganelli, che ha fatto della metaletteratura il suo terreno di gioco ed esplorazione, mostrandosi refrattario alle trame e alle strutture tradizionali, sembra voler dare spazio alle infinite possibilità che gli vengono offerte dalla propria capacità di elaborare invenzioni narrative, condensate, essenziali, in nuce, densissime ma tutte passibili di uno sviluppo che potrebbe trasformare ognuna di loro in un vero e proprio romanzo.

Una sorta di enciclopedia manganelliana quindi, di casistica narrativa, l’intero universo di trame di uno scrittore che però, anche qui, inventa linguaggi, gioca con le parole e con le idee e che rimane quindi, sempre e comunque riconoscibile. “Eppure si tratta più che mai di Manganelli: l’universo in cui i cento romanzi d’una sola pagina si situano è lo stesso in cui in altri libri si scatena la sua tregenda di metafore come un sabba di streghe”, così scrive Calvino nell’Introduzione. “Centuria” è anche il libro che attesta e testimonia la vicinanza letteraria e la stima reciproca che legano Manganelli e Calvino, che li fanno procedere, in anni fortunatissimi di felice scrittura per entrambi, in direzioni parallele, portandoli forse persino ad influenzarsi reciprocamente. E’ innegabile la vicinanza di ispirazione tra i cento romanzi fiume manganelliani e i dieci romanzi iniziati e mai finiti che compongono “Se una notte d’inverno un viaggiatore” di Calvino, come è impossibile non ritrovare, in alcune centurie, città immaginarie che potrebbero non sfigurare accanto alle magiche architetture de “Le città invisibili”: “Nella città semiabbandonata, devastata dalla peste e dalla storia, vivono poche persone che cambiano continuamente abitazione. La tetra storia della città ha fatto sì che i sopravvissuti, e i pochi che sono accorsi ad abitarla, inclinino ad un atteggiamento astratto e meditativo. Poiché le abitazioni sono innumerevoli, anche se tutte un poco fatiscenti, ciascuno si cerca una abitazione congeniale all’umore, alla ricerca, all’angustia del momento”. 

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