Cura e Postfazione (“Pavana per un’infanta”) di Monica Farnetti
Notizia bibliografica di Giuseppe Iannaccone
“Può darsi che tutte queste non fossero che fantasticherie, torbide supposizioni di un cuore che, ieri come oggi, è portato a vedere dovunque dei prigionieri, a riconoscere in ogni albero un carcere di spiriti ardenti, in ogni sasso una cella infame, dove qualcuno arde e si lamenta.”
Più si legge la Ortese e più ci si rende conto che è impossibile penetrare fino in fondo al fascino misterioso che tiene avvinti alle sue pagine, che è impossibile raggiungere il centro, il cuore profondo che le ha generate. Ogni suo libro appare al lettore come quello definitivo, quello che racchiude i lineamenti di uno spirito così complesso che, per non soccombere agli infiniti impulsi che lo sollecitano, sembra avere l’impellente bisogno di riversarsi e di rivelarsi attraverso un linguaggio ardito, evocativo, coloratissimo e capace di generare con la sua sola forza immagini inverosimili e di renderle plausibili, di dare vita a narrazioni là dove persino la sola immaginazione si arrenderebbe.
Ma poi la selvaggia malinconia, l’irriducibile struggimento che guidano la penna di questa grande scrittrice danno vita ancora e ancora a nuove avventure letterarie, perché tali sono le meravigliose architetture che reggono romanzi come “L’iguana”, “Il cardillo addolorato”, “Alonso e i visionari”, “Il porto di Toledo” e ogni volta si scoprono riconferme, si avvertono i segni di un clima noto, ma ogni volta la meraviglia è anche avvinta da qualcosa di diverso, arioso ed enigmatico, che genera dapprima sconcerto e poi ammirazione per una creatività che sa rinnovarsi e crescere su se stessa intorno al nucleo spirituale di un’anima che sfugge e si nasconde. “Nessuno scrittore ha insegnato alla Ortese questa callida acredine del discorrere, quella volatile furia e insieme quella macerazione labirintica che danno, fin dalle prime pagine, una letizia aspra, inquieta, insonne e insieme allucinatoria”, scrive Giorgio Manganelli. Ed è con i racconti giovanili che tale nucleo inizia a delinearsi, con quelli inseriti nelle sue due prime raccolte, “Angelici dolori” e “L’infanta sepolta”, vero e proprio laboratorio di quel misterioso vaneggiare intorno a immagini incantate che sarà cifra e conferma della maturità dell’autrice.
Monica Farnetti nella Postfazione alla presente edizione, dal bellissimo titolo “Pavana per un’infanta”, suddivide i diciassette racconti de “L’infanta sepolta” in tre gruppi, partizioni ovviamente affatto rigorose data la natura di una ispirazione letteraria che tende a sfuggire alle categorizzazioni, a indulgere a virate improvvise e a contaminare temi e generi: “.. la prima [è riservata] a miraggi, contemplazioni estatiche e apparizioni angeliche, la seconda a situazioni autobiografiche, infantili e non, spesso in varia accezione alterate, direbbe lei, dal rumore del mare [..], l’ultima a vedute, tipi e tradizioni di Napoli – non senza che tratti caratteristici di una sezione slittino in un’altra, e viceversa, scompigliandone il disegno complessivo”.